RIONE SAN MARTINO SAN ROCCO
Una storica vittoria
Il Rione San Martino San Rocco intende ricordare con una festosa parata la storica vittoria conseguita nella precedente edizione della corsa che “secondo consuetudini antiche, da lungo tempo in uso”, si svolge ogni anno in nome di San Secondo, protettore e patrono della città di Asti. Borghigiani d’ogni stirpe accompagnano a piedi il vessillo e ciascuno esibisce nelle vesti e nelle acconciature il bianco e il verde, colori
risveglio della natura e quindi rappresenta la speranza e l’immortalità. Segue il carro della Vittoria, su cui viene portato in trionfo l’ambito premio, il Palio, detto anche “bravio”, secondo un’antica denominazione citata in un documento risalente alla metà del XV secolo, in cui si fa riferimento alle somme spese dal governo orleanese per la corsa: ai mercanti astigiani De Lupis vennero pagate 345 lire per l’acquisto di quaranta palmi di velluto celeste per due “bravii” o palii, di cui uno offerto alla chiesa di San Secondo della città di Asti e l’altro attribuito “al cavallo migliore e più veloce nella corsa”. Il documento riporta altre voci di spesa: per l’acquisto di un raso e mezzo di tela blu, per dipingere sui drappi le insegne del duca Carlo d’Orléans, signore di Asti; per l’oro e l’argento posto su quattro insegne di tela e su tre di carta dipinta. Ancora, per due lance, tre mazzi di corde, un bastone con bottoni per i “bravii” e un gallo che “per antica consuetudine viene dato al cavallo che arriva secondo nella corsa”. Infine si pagano tre paia di guanti per i trombettieri, una borsa e gli speroni per i paggi o cavalieri.
Nel corteo si distinguono alcuni membri delle famiglie nobili del rione, appartenenti a diverse consorterie, le cui residenze costituiscono il cuore di questa parte della città: hanno abbandonato la tradizionale compostezza che si addice al loro lignaggio e partecipano con viva allegria alla baldoria generale. L’entusiasmo e l’esultanza del momento danno vita ad un movimentato corteo, in cui ciascuno è libero di inventare il proprio ruolo, al di fuori di ogni schema precostituito. La festa si concluderà con l’offerta del drappo ai santi patroni, San Martino e San Rocco, nelle rispettive chiese, addobbate con sfarzo di broccati e profusione di fiori, ove si svolgeranno solenni cerimonie di ringraziamento.
Donne alla riscossa: il “Livre de la Cité des Dames” di Christine de Pizan
uno dei testi più importanti della letteratura medievale e costituisce una pietra miliare nel lungo
percorso dell’emancipazione femminile. In esso si dimostra per la prima volta che uomini e
donne posseggono le stesse capacità intellettuali : solo l’educazione li differenzia e costringe le
donne a posizioni subalterne. Christine de Pizan è considerata la prima scrittrice europea
“professionale”, in grado di vivere del proprio lavoro: le sue grandi capacità le avevano fatto
ottenere l’appoggio e la committenza di Luigi d’Orléans, fratello del re di Francia e signore di
Asti. Nel libro l’afflitta Christine, stanca e sfiduciata per l’accanimento misogino dei suoi
contemporanei, riceve la visita di tre dame misteriose, che si presentano con i nomi di Ragione,
Rettitudine e Giustizia. Costoro la confortano, la consolano e la invitano alla riscossa. Le tre
dame accompagneranno Christine nella costruzione di una nuova città-fortezza, che diventerà
un luogo di rifugio per le donne virtuose di ogni epoca e condizione sociale e che “non sarà mai
distrutta né decadrà”, resistendo nei secoli agli attacchi di quegli uomini definiti da Ragione
come i suoi invidiosi nemici.
Dama Ragione, per prima cosa, indicherà a Christine il sito destinato ad accogliere il nuovo
insediamento, la fertile pianura chiamata “Campo delle Lettere”. Poi la guiderà nel costruirne le
fondamenta, invitando le donne a munirsi di zappe per rimuove dalla terra le pietre nere e
grossolane del pregiudizio e dell’ignoranza. In seguito dama Rettitudine si occuperà di costruire i
templi e i palazzi della città, utilizzando marmi nitidi e splendenti portati dalle più grandi ed
esemplari figure femminili del passato. A questo punto dama Giustizia provvederà al
popolamento della nuova città, riunendovi tutte quelle donne che si devono definire “dame”
non per i nobili natali, ma per l’altezza dello spirito, degli ideali e delle capacità: un elevato
numero di sante, eroine,
poetesse, scienziate e regine, delle quali Christine illustra virtù ed imprese, proponendole come
esempio dell'enorme e indispensabile potenziale creativo che le donne sono in grado di offrire
alla società. Tra queste, figura anche Valentina Visconti, moglie del duca Luigi d’Orléans e
Signora di Asti e della patria Astese.
Le sacre rappresentazioni: la visione medievale della lotta tra il bene e il male.
Angeli, Demoni e Apocalisse nell’immaginario popolare.
Nell’immaginario medioevale si incrociavano rivelazioni e visioni, spesso risultato dell’incrocio tra
credenze religiose e pratiche magiche. In particolare l’Apocalisse di Giovanni fornì un cospicuo
repertorio di immagini utilizzate per indurre il fedele a pentirsi dei propri peccati, in vista di una
imminente fine del mondo. Nell’iconografia venivano sovente raffigurati i quattro cavalieri
dell’Apocalisse (bianco, rosso, nero, verde) che appaiono dopo l’apertura dei primi quattro sigilli
da parte dell’Agnello, Gesù Cristo. Il cavaliere bianco simboleggia l’Anticristo, quello rosso la
guerra, il cavaliere nero la carestia e quello verde rappresenta la morte, ed è apportatore di peste,
epidemie e contagi. Se l’Apocalisse è una visione terrificante che descrive la Chiesa in lotta
contro Satana, il lato luminoso dell’immaginario medievale è costituito dagli angeli, protettori e
difensori degli esseri umani, che ne invocano l’aiuto. Agli angeli si contrappongono i demoni,
rappresentati in diversi atteggiamenti: tentano i Santi con sussurri insidiosi, assumono sembianze
capaci di suggestionare lo spirito umano, suscitano gli affetti sia durante il sonno sia nella veglia,
eccitano il corpo, inducendolo ad amori illeciti. Possono essere soggiogati solo dai Santi, che
impongono loro di lasciare libero l’uomo e li imprigionano negli abissi della terra.
Presenti nelle prediche, che infiammavano gli animi dei fedeli specie durante la Quaresima, visioni
apocalittiche, angeli e demoni sono motivi ricorrenti sia negli affreschi sia nelle sculture che
decorano le chiese romaniche astigiane, dall’abbazia di Vezzolano a San Secondo in Cortazzone.
Il Comune di Baldichieri intende rievocare la visione della lotta tra bene e male, angeli e demoni,
ben presente anche nell’immaginario degli abitanti del contado astese.
COMUNE DI MONCALVO
Un territorio senza capitale: la corte itinerante dei Monferrato
BORGO SANTA MARIA NUOVA
COMUNE DI MONCALVO
Un territorio senza capitale: la corte itinerante dei Monferrato
Moncalvo fu uno dei centri principali del Marchesato del Monferrato ed il suo
castello, sede di Corte, costituiva uno dei più grandi complessi fortificati del
Piemonte. Quella dei Marchesi del Monferrato fu a lungo una Corte itinerante;
anche se questa caratteristica andò attenuandosi con l’affermarsi della dinastia
Paleologa, i Marchesi erano soliti, per mantenere un più efficace controllo del
territorio, muoversi sistematicamente all’interno dei loro possedimenti , tra Valenza,
Moncalvo, Pontestura, Montiglio e Asti, allorché nel XIV secolo, la città fu per breve
periodo soggetta ai Paleologi di Monferrato.
La necessità di spostarsi frequentemente - e nello stesso tempo di mantenere uno
stile di vita adatto al rango - si rifletteva sulla tipologia dei manufatti e degli arredi
delle dimore marchionali; questi, infatti, dovevano unire al lusso la caratteristica di
poter essere trasportati con facilità.
Particolarmente adatto a questo scopo fu l’arazzo, accessorio d’arredo ,che vide
un’ampia diffusione a partire dalla metà del XIV secolo e che assolveva anche alla
funzione di difendere gli ambienti dal freddo. Non mancavano poi nel “corredo da
viaggio” dei Marchesi e della loro Corte, oltre a manufatti di uso quotidiano, anche
libri, strumenti astrologici, tappeti e, per le necessità dell’anima, reliquie ed oggetti
sacri.
Nel periodo di permanenza dei Marchesi, ogni castello del territorio doveva
trasformarsi velocemente in un ambiente lussuoso ed accogliente, ove ospitare la
Corte e ricevere personalità di alto lignaggio.
BORGO SANTA MARIA NUOVA
L' arte della falconeria
La caccia con i rapaci è di origini antichissime e viene fatta risalire agli Egizi. Nel
medioevo la praticò con grande passione Federico II di Svevia che, avvalendosi
anche del consiglio di valenti falconieri arabi, dedicò ad essa il trattato De arte
venandi cum avibus. La falconeria, che richiedeva l’impiego di cavalli e cani e si
svolgeva su aree molto estese, coinvolgendo un numero elevato di aiutanti, era una
vera disciplina di élite riservata esclusivamente ai sovrani e all’aristocrazia.
Di questa pratica, diffusa presso tutte le corti medievali, ad Asti resta testimonianza
nel pavimento musivo della Cattedrale, cha data al XII secolo; la falconeria è citata
nella Divina Commedia, nel Decamerone, nei racconti del Novellino e nella Cronica
di Giovanni Villani; intorno al 1290 anche Marco Polo la descrive alla corte di Kublai
Kan. Abili falconieri erano i Cavalieri Ospitalieri; ed anche le donne potevano
praticarla. Prova del prestigio di questa pratica è l’istituzione alla corte di Francia
della figura del Gran Falconiere: Luigi d'Orléans, signore della contea di Asti e in
seguito re di Francia con il nome di Luigi XII, elesse a questa carica Olivier Sallard,
signore di Burron. Suo compito, oltre all'organizzazione ed alla gestione
dell'allevamento dei rapaci, era scegliere e acquistare i volatili, che nel XV secolo
potevano raggiungere anche il valore di 20 scudi d'oro.
Nel Quattrocento si prediligeva la caccia a volo alto con i falchi pellegrini soprattutto
per la cattura di altri volatili. Il falconiere durante la caccia teneva il rapace sul pugno
protetto da robusti guanti in cuoio. Falchi, falconi, aquile e gufi vengono portati
incappucciati da uno chaperon, un apposito cappuccio che li isola da stimoli visivi
durante l'acclimatamento o l'addestramento. Robuste strisce di cuoio avvolgono le
zampe dei rapaci appena sopra i rostri. Spesso, alle zampe sono legati anche un
campanellino segnaletico e una striscia colorata identificativa.
Le “masche” nel medioevo astigiano: fattucchiere e fate
Masca è un termine piemontese molto diffuso nell’Astigiano derivato dal longobardo “maska”,
che indicava l’anima di un morto, era prevalentemente utilizzato per indicare streghe e
fattucchiere. Con questa valenza è già utilizzato nell’editto di Rotari nell’anno 643 e nel XII
secolo da Gervasio da Tilbury.
Nella tradizione medioevale piemontese le Masche erano donne apparentemente normali, ma
dotate di facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia. Avevano il potere della
trasformazione in animali considerati negativi come gatti (perseguitati insieme alle padrone),
capre, pecore e bisce. Venivano incolpate di eventi naturali infausti come le grandinate (masche
tempestarie) e disgrazie, quali sparizioni di bambini e malattie. Numerose le leggende sui
metodi dell’ammascamento degli uomini, sedotti dalle grazie di queste donne che potevano
cambiare aspetto. Nella nostra tradizione frequentavano la chiesa e ricevevano i sacramenti
come tutte le altre donne della comunità, ma poi durante la notte compivano magie e sortilegi
grazie a formule e incantesimi contenuti nel Libro del Comando.
Di indole raramente malvagia, ma sempre capricciosa, dispettosa e vendicativa, le Masche
potevano anche operare il bene come guaritrici e protettrici.
Queste “Masche buone” nell’iconografia tradizionale appaiono molto simili alle fate: di
sovraumana bellezza, vestono lunghi abiti variopinti e venivano identificate con gli animali
tradizionalmente docili (colombe, farfalle, cervi). Erano invocate per la protezione e la
guarigione di bambini, uomini ed animali. Amate o temute da nobili e popolani, venivano
contrastate con pozioni alla malva, tenute a distanza dai filati delle vergini e da amuleti religiosi
e profani come croci, sacchetti di sale e ferri di cavallo arroventati oppure propiziate con rami
fioriti.
Mentre questo aspetto solare delle Masche, pur tramandato dalla tradizione, non è attestato
nelle fonti astigiane, il timore per il lato oscuro del sovrannaturale è documentato dagli Statuti:
il Codice Catenato al Cap. capitolo CVII (“Exterminandam de civitatis Astensis posse et districtu
diabolicam affatturariorum et affatturariarum operationem et doctrinam”) condanna
fattucchiere, streghe e maghi, che, scoperti, erano puniti con la tortura e il rogo.
Il Borgo San Lazzaro intende rievocare queste figure che rappresentavano il lato magico e
fiabesco della donna medioevale e i numerosi rimedi che la popolazione utilizzava per
esorcizzarle o evocarle.
Beatrice contessa di Provenza e l’alleanza con gli Astesi
Nell’anno 1263, Carlo I d’Angiò allora Conte di Provenza mirava a impadronirsi del
Regno di Sicilia, spinto a ciò anche da papa Urbano IV. Radunato un gran numero di
cavalieri, grazie al sostegno economico del Pontefice, si diresse a Roma per ottenere
l’investitura regia; mentre Carlo viaggiò via mare con 20 galee, il grosso dei suoi
cavalieri lo seguì via terra e, transitando per il Piemonte, sostò ad Asti.
Con i cavalieri del futuro Re viaggiava Beatrice ,contessa di Provenza, giovane e bella
moglie di Carlo, al quale nel 1246 aveva portato in dote la Contea di Provenza
ereditata dal padre Raimondo Berengario IV. Arrivando ad Asti, sia Beatrice sia le
dame che si erano offerte di accompagnarla a Roma per rendere omaggio al Re,
furono accolte con omaggi ed eleganti discorsi. Lungo le vie di Asti si affollarono
spettatori entusiasti per assistere al passaggio del corteo formato dai cavalieri, dalla
Contessa e dal suo grazioso seguito di dame e damigelle, elegantemente abbigliate
con vesti di velluto, broccati e damasco su cui campeggiavano ricchi ornamenti di
pietre preziose.
Il Dottore in leggi Nicola dei Dusii indirizzò un elegante discorso di benvenuto a e alla
sua partenza, la Contessa di Provenza fu salutata da Baldovino Malabalia, che la
ringraziò per la cortesia usata nei confronti degli Astigiani , nel procurar loro
l’amicizia di Carlo. Beatrice, prima di allontanarsi, volle stringere alleanza con la Città
di Asti.
BORGO SAN MARZANOTTO
Dai conventi alle botteghe: l’arte della miniatura, del ricamo e dell’arazzo
Le comunità religiose femminili, particolarmente numerose anche ad Asti, fin dall’alto Medioevo
offrivano alle donne un ambiente favorevole per esprimere le loro doti artistiche. Nei conventi
infatti le religiose, oltre che ricoprire il ruolo di amministratrici e insegnanti, erano impiegate come
bibliotecarie, scribe ed amanuensi.
Sono noti alcuni manoscritti copiati da donne che si erano ritirate nei monasteri e trasfondevano
nella miniatura quelle capacità che per ragioni sociali non potevano manifestare nella pittura su
tavola e ancor meno nell’affresco.
Particolarmente importanti furono, a partire dal X secolo, i ricami di indumenti liturgici che
venivano eseguiti con colori vivaci, impreziositi da smalti, perle, gemme lucenti su uno sfondo
intessuto d’oro e di seta. Altrettanto diffusa era la tessitura di arazzi e stoffe.
A partire dall’XI secolo fecero la loro comparsa anche ricamatrici professioniste non legate ai
monasteri. Dalla fine del Duecento crebbe la domanda di beni di lusso e si andarono formando
centri di produzione di manufatti di notevolissimo pregio. Nacquero botteghe, veri e propri atelier,
dove il maestro era affiancato da numerose maestranze che non di rado eseguivano i lavori su
disegno di pittori.
Oltre alla fortissima richiesta di paramenti e vesti liturgiche ricamate da parte degli ecclesiastici di
alto rango, si diffuse la moda di abiti ed ornamenti ricamati per le grandi occasioni, soprattutto per i
matrimoni nobiliari; anche i ceti più modesti non si facevano mancare, quando era possibile,
almeno un vestito ricamato.
Il gusto per il ricamo non si rivolgeva soltanto agli addobbi liturgici o agli abiti principeschi, ma a
tutto ciò che poteva essere ornato: dalle borse alle cinture, ai tessuti d’arredamento e soprattutto ai
“completi da camera”, a partire dal “capocielo”, e all’insieme di tendaggi posti a protezione del
letto, che addobbavano lussuosamente con tessuti di seta e d’oro e con arazzi le camere di dimore
signorili e principesche, dispiegandosi in abbondanti drappeggi coordinati con le coperte ed i
cuscini.
BORGO SAN PIETRO
Lo zodiaco e le influenze delle armonie cosmiche sull’ uomo e sull’ universo.
I simboli zodiacali del fastoso cornicione di Palazzo Catena, costituito da formelle in cotto
simulanti archetti trilobi, restano a testimoniare, unicum nel panorama decorativo
astigiano, come anche nella nostra città , nel basso Medioevo, fosse diffusa la
convinzione dell’influenza degli astri sulla vita e sulle attività degli uomini, sugli elementi
e sulle stagioni; la conoscenza delle armonie stellari era, inoltre, considerata
determinante per comprendere i caratteri psico-fisici delle persone e i loro stati d’animo.
Sulla base della coincidenza tra il numero degli Apostoli e quello dei segni zodiacali,
questi ultimi furono interpretati in senso cristiano così che, divenuti simboli della fede,
vennero raffigurati attorno alla figura del Cristo (Signore del cosmo e del tempo), mentre
la produzione di calendari illustrava la loro sequenza stagionale.
L’uomo diventava così un microcosmo a immagine e somiglianza del macrocosmo divino,
gli astri in base alle disposizioni zodiacali potevano influenzare il corpo e la mente e
l’astrologia si affermò come forma di conoscenza capace di dare spiegazione alla vita, alla
psiche e all’anima, utile a comprendere la verità del reale e a divinare il destino.
Una certa confusione tra astrologia e astronomia assimilava – quanto meno a livello
popolare – la figura dell’astrologo a quella dell’astronomo: l’astrologo compilava le
“effemeridi”, tavole che riportavano le posizioni dei pianeti giorno per giorno,
stabilendone così gli influssi, mentre la cosiddetta “astrologia giudiziaria” aveva compiti
di divinazione. L’astronomo invece, utilizzando l’astrolabio, localizzava e calcolava la
posizione dei corpi celesti.
Presente presso le corti, non esclusa quella papale, l’astrologo spesso esercitava
un’influenza determinante in scelte politiche e decisioni operative. In secoli in cui la
scienza si andava lentamente e faticosamente affrancando dalle pratiche magicoesoteriche era facile lasciarsi sedurre dal fascino di conoscenze occulte: come testimonia
la vicenda Fra Filippo di Revigliasco, cavaliere gerosolimitano, che dapprima si occupò di
astrologia, negromanzia e scienze alchemiche, mentre in seguito ricusò totalmente questi
interessi per morire in fama di santità.
RIONE SANTA CATERINA
La mazzochiaia e l’arte di esaltare la vanità femminile nell’acconciare i capelli
“Una testa per il giorno, una per la notte, una per le feste civili, una per le cerimonie
religiose, una per stare in casa, una per uscire e una per gli estranei…”
Così scriveva Stefano di Bordone, inquisitore domenicano del XIII secolo, condannando la
civetteria femminile che, in ogni tempo della storia e in ogni luogo della terra, si è espressa
con il vezzo di acconciare i capelli, creare copricapi di fogge e dimensioni diverse e ricercare
ornamenti per il capo allo scopo di esaltare la bellezza.
Nel XV secolo l’arte di adornare il capo assume la valenza di un vero e proprio codice
comunicativo che esprime il ceto di nascita e, per la donna, anche lo stato civile, rendendo
manifesta la sua dipendenza da un padre, da un fidanzato o da un marito.
Anche le nobildonne astigiane, si adornano con copricapi confezionati con tessuti preziosi, reti
gemmate e veli impalpabili dalle trame dorate. Si usano ghirlande di fiori freschi, di piume, di
velluto per rifinire un’acconciatura, reticelle d’oro e innumerevoli fili di perle per raccogliere
graziosamente folte chiome. Ne dà testimonianza Gugliemo Ventura, descrivendo le donne dei
Guttuari all’apice della potenza della famiglia: “ belle furono le loro mogli … le loro teste
erano coperte di preziosissimi gioielli”.
La capigliatura deve essere sempre e comunque “ben acconciata”: nessuna donna per bene
può permettersi di uscire di casa né di presentarsi in pubblico con i capelli sciolti sulle spalle,
fatta eccezione per le bambine.
Questa grande attenzione all’estetica del capello dà origine, verso la fine del Medioevo, ad una
professione – sia femminile, la mazzocchiaia, sia maschile, il maestro a far mazzocchi (dalla
denominazione di una imbottitura da nascondere e fissare tra i capelli per aumentarne il
volume) – che molto successo avrebbe riscosso nei secoli a venire fino ai giorni nostri.
Il corteo rosso celeste propone figure femminili che, diverse per censo ed età, sfoggiano
acconciature, curate dalle mani esperte della mazzochiaia, che esaltano la loro bellezza e
vanità …
RIONE CATTEDRALE
La famiglia Alfieri Tra origini leggendarie e avvenimenti storici
Nel secentesco Compendio Historiale della città di Asti di Guidantonio Malabaila si
narra come, durante la difesa di Roma contro i Goti, l'astese Arricino Moneta
riuscisse a recuperare l’insegna romana dell’Aquila, caduta in mani nemiche. Per
questo eroico gesto egli avrebbe ottenuto l’appellativo di Alfiere e il diritto di
fregiarsi dell’insegna dell’Aquila.
E’ tradizione che Arricino Moneta, mitico capostipite degli Alfieri - che da quel
remoto evento avrebbero tratto nome e insegna -, sia raffigurato in una lapide
all’interno della Cattedrale: questa mostra un uomo a cavallo di un destriero, sulla
cui gualdrappa sono raffigurati due scudi con il simbolo dell'aquila imperiale.
Gli Alfieri, una delle principali famiglie della nobiltà astigiana, devono la loro ascesa
sociale al prestito su pegno, esercitato nelle cosiddette ‘casane’, ed al commercio. Il
raggio di azione delle attività economiche di questa famiglia fu molto vasto: nel
Duecento gli Alfieri operano con grande successo in Borgogna, in Savoia a Friburgo
e nei Paesi Bassi ove si dedicano al commercio, ma soprattutto alle attività creditizie.
Contestualmente altri membri curano gli interessi di famiglia nel territorio astigiano,
annoverando tra la propria clientela istituzioni di primo piano quali il Capitolo della
Cattedrale di Asti.
Alla famiglia Alfieri, sempre presente nella vita pubblica astigiana, appartennero
personaggi di rilievo nella politica cittadina del basso medioevo: basti citare
Guglielmo Alfieri, credendario, sapiente e ambasciatore, Ogerio Alfieri responsabile
dell'archivio comunale e redattore della famosa Cronica, Bertramino Alfieri, uno dei
14 savi che approvarono lo statuto della società dei Militi: numerosi furono i
magistrati, gli uomini d’arme, gli ambasciatori.
Il corteo del rione Cattedrale ha come protagonista questa ricca e nobile famiglia
che ha contribuito a rendere grande Asti nel medioevo.
BORGO DON BOSCO
Nuove eroine per l'immaginario medievale
Se nel 1312 Jacques de Longuyon, nel suo Voeux du paon, elaborò per la prima volta il
ciclo dei “Nove Prodi” per celebrare le virtù e gli ideali del mondo cavalleresco, nel 1373 il
parigino Jehan Le Fèvre ne definì l’esatto contraltare femminile, destinato ad avere
un’enorme fortuna sia in campo letterario sia in quello delle arti figurative. In un periodo
di dominante misoginia, scrisse il Livre de Lëesce per dimostrare come le donne siano più
audaci, coraggiose e virtuose degli uomini. Ispirandosi a romanzi antichi e al De claris
mulieribus di Giovanni Boccaccio, ad imitazione speculare dei “Nove prodi” compilò un
catalogo di nove eroine leggendarie che rappresentavano una visione cortese e
cavalleresca della mitologia e della storia antica. Tale catalogo fu prontamente ripreso da
Eustache Deschamps, da Christine de Pizan e da Tommaso di Saluzzo, diventando fonte
d’ispirazione per straordinari capolavori nell’ambito della cultura artistica del Gotico
internazionale. Ad esempio, già nel 1396 Luigi d’Orléans signore di Asti commissionava il
ciclo delle Nove Eroine per il salone del castello di Pierrefonds, e nel 1399 fece realizzare
statue monumentali di analogo soggetto per decorare la facciata del castello di La Ferté-
Milon. Se il ciclo dei Nove Prodi rappresentò l’apoteosi dell’ideologia cavalleresca, quello
delle Nove Eroine tentò di arginarne la crisi culturale. Alla fine del Trecento la cavalleria,
ormai decaduta dal suo ruolo militare, vide messi in discussione anche i suoi ideali
‘maschilisti’ e reagì al declino rifugiandosi nella fantasia e nel sogno, con una fuga dalla
realtà a cui le donne furono invitate a partecipare da protagoniste e non più da semplici
gregarie. Il ciclo prevedeva nove regine: Semiramide sovrana di Babilonia, indomabile
guerriera e inventrice dei giardini pensili; Tamaris, regina dei Massageti, che sconfisse e
uccise in battaglia Ciro re dei Persiani; Teuca, regina degli Illiri, che morì lottando contro i
romani per preservare la libertà del suo popolo; Deifila, moglie del re di Argo che
sconfisse la potente Tebe. Ad esse si aggiungono le inquietanti figure delle cinque regine
delle Amazzoni: Sinope, Ippolita che combatté contro Ercole, Antiope amante di Teseo,
Lampeto e Pentesilea alleata dei Troiani contro i Greci e morta per mano di Achille.
Gli Scarampi signori di Canelli
La famiglia degli Scarampi è una delle più antiche del patriziato astese.
Esercitò un’intensa attività creditizia della quale si avvalsero i conti sabaudi dal 1297 al 1381 ; ricevette,
inoltre, privilegi commerciali dai Re di Francia e di Navarra che considerarono gli Scarampi “burgenses” e
non “stranieri”. Rimasero tuttavia legati alla proprietà fondiaria e furono destinatari di investiture di feudi, da parte sia del Comune o dei Signori di Asti, sia del Marchese del Monferrato, sia dei Savoia.
Dal 1329 feudatari di Vinchio, Montaldo e Mombercelli, più tardi furono investiti di Cortemilia, Canale, Olmo, Roccaverano, Bubbio, San Giorgio, Monastero, Cairo, Proney, fregiandosi anche del titolo di marchesi.
Nel 1462 agli Scarampi è assegnato in feudo dal Duca Carlo d’Orléans, discendente dei Visconti-Orléans, Signore di Asti, “Villa et locum et posse Canellarum Patriae Astensis” (città, territorio e possedimenti di Canelli d’Asti).
Vivo, forte ed interessante sarà il legame culturale del Duca, alta espressione della poesia rinascimentale francese, e della corte orléanese, con esponenti femminili degli Scarampi.
La nobile famiglia eccelleva, dunque, non solo sul piano commerciale, ma anche per sensibilità culturale. Fin dal XIII secolo, inoltre, fu molto attiva nella vita politica: Guglielmo fu Podestà di Genova nel 1264, Filippo fu sostenitore acceso del ghibellinismo in Asti all’inizio del Trecento, Francesca Maria, contessa di Canelli, sarà tesoriera e successivamente (1610) governatrice di Asti, agendo con diplomazia e determinazione in coerenza con il motto araldico della famiglia: “ Modus et ordo” (capacità e ordine).
Il Comune di Canelli rievoca l’omaggio di benvenuto ai nuovi feudatari preceduti nel corteo dalle chiavi della Città e dalla bolla di dedizione e seguiti dal popolo che offre i prodotti del proprio lavoro, con doviziosi omaggi. Secondo il rituale, i doni simbolici agli Scarampi seguono, nella presentazione offertoriale, un ordine propiziatorio: il pane ed il sale dell’ospitalità, le pregiate uve delle colline, il bianco vino apprezzato alla corte di Francia, cesti di prodotti dell’orto, tessuti e ricami con le insegne. Il tutto come augurio di buon governo e di prosperità per il popolo.
1381: Patti tra Montechiaro e Gian Galeazzo Visconti
Il 24 aprile 1381 ad Asti nel palazzo dei Troya, sede del capitano Gaspardo de Ubaldinis vennero
stipulati patti e convenzioni tra il comune di Montechiaro e il plenipotenziario di Gian Galeazzo
Visconti signore di Asti, Jacopo Dal Verme.
Tali patti, fortemente connotati in senso anti-astigiano, erano articolati in 29 capitoli che
prevedevano, tra l’altro, l’amnistia per i banniti – i destinatari di un provvedimento di esclusione
dalla comunità – e significative agevolazioni fiscali. Agli abitanti di Montechiaro fu concesso,
inoltre, di rivedere il proprio catasto, di solvere fodro et talea dicto comuni Monteclaro, cioè di
trattenere gli introiti fiscali anziché corrisponderli agli Astigiani, in chiara contrapposizione con
quanto prescritto degli Statuti di Asti; agli ufficiali sia viscontei , sia astigiani fu vietato di
imporre pedaggi ai mercanti che si fossero recati a Montechiaro in occasione della fiera.
Il corteo storico bianco-celeste vuole rappresentare alcuni dei personaggi citati nel documento:
Jacopo Dal Verme delegato da Gian Galeazzo Visconti, il capitano Gaspardo de Ubaldinis, il
podestà di Montechiaro, i referendari, i rappresentanti del comune di Montechiaro che trattarono
con il plenipotenziario visconteo, i banniti, il notaio, le dame e infine i portacolori.
San Giorgio a Viatosto: la traccia indelebile di una leggenda
Bandiere per il Duca d’Orléans
Un importante incontro sul “Ponte della Rotta”
Recinto dei Nobili: aristocrazia, artigianato e commercio in Porta San Gaudenzio
Enrico VII di Lussemburgo concede privilegi al Comune di Asti nel Convento di San Francesco.
La peste – castigo di Dio
Medioevo alla rovescia: la festa dei folli
COMUNE DI MONTECHIARO
1381: Patti tra Montechiaro e Gian Galeazzo Visconti
Il 24 aprile 1381 ad Asti nel palazzo dei Troya, sede del capitano Gaspardo de Ubaldinis vennero
stipulati patti e convenzioni tra il comune di Montechiaro e il plenipotenziario di Gian Galeazzo
Visconti signore di Asti, Jacopo Dal Verme.
Tali patti, fortemente connotati in senso anti-astigiano, erano articolati in 29 capitoli che
prevedevano, tra l’altro, l’amnistia per i banniti – i destinatari di un provvedimento di esclusione
dalla comunità – e significative agevolazioni fiscali. Agli abitanti di Montechiaro fu concesso,
inoltre, di rivedere il proprio catasto, di solvere fodro et talea dicto comuni Monteclaro, cioè di
trattenere gli introiti fiscali anziché corrisponderli agli Astigiani, in chiara contrapposizione con
quanto prescritto degli Statuti di Asti; agli ufficiali sia viscontei , sia astigiani fu vietato di
imporre pedaggi ai mercanti che si fossero recati a Montechiaro in occasione della fiera.
Il corteo storico bianco-celeste vuole rappresentare alcuni dei personaggi citati nel documento:
Jacopo Dal Verme delegato da Gian Galeazzo Visconti, il capitano Gaspardo de Ubaldinis, il
podestà di Montechiaro, i referendari, i rappresentanti del comune di Montechiaro che trattarono
con il plenipotenziario visconteo, i banniti, il notaio, le dame e infine i portacolori.
BORGO VIATOSTO
San Giorgio a Viatosto: la traccia indelebile di una leggenda
Nel Medioevo la leggenda del soldato vincitore del drago, nata al tempo delle Crociate
(probabilmente influenzata dalla falsa interpretazione di un'immagine dell'imperatore
cristiano Costantino, rinvenuta a Costantinopoli, in cui il sovrano è raffigurato nell’atto di
schiacciare un enorme drago, simbolo del «nemico del genere umano»), contribuì al
diffondersi del culto di San Giorgio. Rapidamente egli divenne un santo tra i più venerati
in ogni parte del mondo cristiano.
Tra gli affreschi presenti all’interno della Chiesa di Viatosto – toponimo che, secondo
l’ipotesi formulata nel XIX secolo dallo storico Incisa deriverebbe dalla miracolosa
cessazione, in Asti, della peste degli anni Quaranta del Trecento – è rappresentato, nella
lunetta di sinistra del presbiterio, San Giorgio che uccide il drago (1380-1390),
raffigurazione coerente con il fatto , San Giorgio era invocato, tra l’altro, contro la peste.
Nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine si narra che un tempo, presso una città
chiamata Selem, in Libia, in un grande stagno, trovasse rifugio un drago, il quale,
avvicinandosi alla città, uccideva tutte le persone che incontrava, costringendo gli
abitanti ad offrirgli sacrifici umani per placarlo.
Il cavaliere Giorgio, saputo che anche la principessa di quel luogo era stata condannata al
sacrificio, promise di evitarle quella terribile morte e le disse di non aver timore e di
avvolgere la sua cintura al collo del drago, che prese a seguirla fin dentro la città. Giorgio
così si rivolse agli abitanti: «Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: se
abbraccerete la fede in Cristo, riceverete il battesimo e io ucciderò il mostro». Allora il re
e la popolazione si convertirono, il cavaliere uccise il drago e lo fece portare fuori dalla
città.
San Giorgio in lotta contro il drago, simbolo dell’eterna contesa tra bene e male, incarnò
per secoli gli ideali del mondo cavalleresco.
Il Borgo Viatosto raffigura il trionfo del cavaliere dopo l’uccisione del drago, il cui corpo
viene trasportato fuori dalla città.
BORGO TANARO
Bandiere per il Duca d’Orléans
L’8 aprile 1387 Luigi di Valois, fratello del re di Francia e duca di Turenna (dal 1392 duca
d’Orléans), riceveva formalmente la signoria sulla città di Asti e su tutta la Patria Astese, come
dote della futura sposa Valentina Visconti. Già nel maggio dello stesso anno l’apparato
amministrativo di quella che è nota ancora oggi come “signoria orleanese” si instaurava con
grande rapidità nel territorio astigiano, sovrapponendosi senza significative modifiche alla
struttura comunale, della quale conservava le magistrature , limitandosi a subordinarle
all’autorità di un governatore francese. Con altrettanta celerità fu intrapresa una notevole
serie di campagne edilizie e decorative atte ad imporre e celebrare la nuova signoria anche sul
piano visivo ed emblematico secondo la prassi diffusa nelle corti dell’epoca. Assai
interessante, ad esempio, è la realizzazione di un buon numero di bandiere che avevano il
compito di affermare la nuova identità statale. Nel novembre 1387 il pittore Giovanni
Imperato, già impegnato in precedenza in altri apparati decorativi, riceveva la considerevole
somma di 19 lire astesi per la pittura di dodici bandiere militari “…pro exercito nostro” : su sei
di queste campeggiava l’arma gigliata del duca Luigi, sulle altre sei il Biscione della sua
consorte Valentina Visconti. Assai più impegnativa e costosa, nel marzo successivo, fu la
realizzazione di tre grandi vessilli con lo stemma ducale “…per il palazzo del nostro signor
duca, in cui abita il signor governatore”. Grazie alle minuziose registrazioni della tesoreria
ducale, sappiamo che le tre bandiere richiesero ben 42 braccia di tessuto di zendale misto a
seta; dallo speziale Antonio Bellone furono acquistati l’oro battuto in foglia, la polvere d’oro,
la gomma arabica e gli altri materiali; infine il maestro ricamatore Cristoforo de Alemania si
occupò della faticosa realizzazione. Il palazzo del duca si estendeva un tempo ai piedi della
torre Troiana e le bandiere con ogni probabilità erano destinate a garrire sulla torre stessa, su
un’altra gemella poi scomparsa e sulla principale porta d’ingresso. Oltre alle bandiere
ricostruite secondo le indicazioni dei documenti, sfilano in corteo gli artefici che le
realizzarono e vengono messi in mostra i materiali impiegati.
COMUNE DI CASTELL'ALFERO
Un importante incontro sul “Ponte della Rotta”
Nel 1305 moriva Giovanni I, Marchese del Monferrato, dopo aver designato come suo
erede Teodoro, figlio di sua sorella Violante e dell’imperatore bizantino Andronico I
Paleologo. Teodoro, giunto a Genova da Costantinopoli, sposò Argentina, figlia di Opicino
Spinola, e si trasferì a Casale. Erano tempi difficili per il marchesato: molti possedimenti
erano stati occupati dal Marchese di Saluzzo e anche il Principe Filippo d’Acaja - da poco
divenuto Capitano del Comune di Asti - non nascondeva le sue mire sulle terre aleramiche.
Teodoro decise di ristabilire innanzitutto rapporti di alleanza con gli Astesi e incontrò una
loro delegazione, capeggiata proprio da Filippo d’Acaja, sul ponte della Rotta, presso
Grixano, nella vallata tra Portacomaro e Castell’Alfero, terra di confine tra Asti e il
Monferrato. Il Principe d’Acaja diede ampie rassicurazioni a Teodoro, anche se - tornato ad
Asti - tentò di convincere il Podestà e il Collegio dei Savi a non stipulare alcuna alleanza
con il Marchese. Ma gli Astesi furono di diverso avviso e decisero di mantenere l’impegno
preso con Teodoro.
Il corteo di Castell’Alfero ricorda lo storico incontro, avvenuto nel giorno di San Michele
(29 settembre) del 1306. Sfileranno il gruppo degli alfieri, scorta d’onore per rendere
omaggio ai due personaggi, la delegazione astese che accompagna il Principe d’Acaja
quella monferrina al seguito di Teodoro e, infine, preceduti dal vessillo di Castell’Alfero, i
notabili castellalferesi e i popolani accorsi per assistere all’evento.
RIONE SAN SILVESTRO
Recinto dei Nobili: aristocrazia, artigianato e commercio in Porta San Gaudenzio
“Le belle mura nuove” citate da Ogerio Alfieri a fine Duecento, pochi decenni più tardi sono
insufficienti a contenere la crescita di Asti, che ha necessità di provvedere all’ampliamento
murario difensivo prima con gli angioini e quindi dal 1342 con Luchino Visconti. Alla fine del
XIV secolo la città, tornata viscontea con Gian Galeazzo, viene da costui concessa come dote
alla figlia Valentina sposa di Luigi di Valois, fratello di Carlo VI re di Francia: i nuovi signori
subito si impegnano nel rilanciare l'economia cittadina ,sia attenuando gli oneri fiscali e le
servitù militari, sia migliorando l’urbanistica. Così il commercio rifiorisce: la cinta muraria
ormai raddoppiata divide la città in quattro quartieri, due nel "Recinto dei Nobili" (prima
cerchia di mura) e due nel "Recinto dei Borghigiani" (seconda cerchia). Ogni quartiere è
tripartito: tre Porte nel Recinto dei Nobili, tre Borghi in quello dei Borghigiani; Porte e Borghi
sono retti da due Rettori minuti (o Anziani o Consoli) e da un Capitano militare. Ogni Porta –
così come ogni Borgo – è suddivisa in quattro Contrade, ciascuna in grado di armare una
Bandiera (milizia popolare di venticinque uomini con propria insegna).
Il quartiere di Porta San Gaudenzio e San Michele (composto dall’estensione di San SilvestroSan Gaudenzio, da parte di San Giovanni della Fontana e di San Sisto e dall’estensione di San
Michele- San Maurizio, e da un tratto di Sant'Ilario e di Sant'Aniano) appartiene al grande
quartiere detto degli "Alborum" (‘dei Bianchi’ dal colore del vessillo di battaglia), definito
anche deversus Castrum (verso il Castello). La residenza dei vertici cittadini nel quartiere di
Porta San Gaudenzio richiama importanti famiglie che hanno interesse a stabilirsi vicine ai
palazzi “del potere”: Alfieri, Asinari, Guttuari, Malabaila, Pelletta, Solaro, Isnardi.
La presenza di un nucleo di famiglie affini e facoltose offre largo spazio ad una frenetica
attività mercatale e, tra caseforti e torri dei maggiorenti, compaiono laboratori, osterie, orti,
lavanderie, botteghe, officine, in una piccola società operosa. Nella vita e nell’economia di
quartiere, l’artigianato ed il commercio diventano i motori trainanti: si acquistano strumenti e
materie prime necessarie alla produzione, si lavora in ‘bottega’ con ‘garzoni’, si vende
direttamente al cliente, in un circuito virtuoso fra lavoro manuale, proprietà dei mezzi di
produzione e reimpiego produttivo dei ricavi derivanti dalla vendita. Per il Rione San Silvestro,
accanto ai maggiorenti sfilano le eccellenze professionali che ancora oggi rendono lustro
all’economia ed alle arti astigiane.
RIONE SAN PAOLO
Enrico VII di Lussemburgo concede privilegi al Comune di Asti nel Convento di San Francesco.
Un documento del Codex Astensis riporta i nomi degli autorevoli personaggi che il
giorno 8 dicembre 1310 furono testimoni in Asti, presso il convento di San Francesco
nel Rione San Paolo, alla pubblica lettura dell'importante privilegio con cui
l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo rendeva popolo e Comune di Asti
pienamente liberi di disporre dei diritti e della giurisdizione tradizionalmente
spettanti alla città. Erano presenti in tale occasione vescovi, principi e baroni fra cui
Guido vescovo di Asti, Filippo principe d’Acaja, lo stesso imperatore Enrico VII,
Amedeo V conte di Savoia, Andrea Garetti dottore in legge, i nobili astesi Domenico
Pelletta, Antonio Solaro e Corrado Malabaila. In detta adunanza Nicola Bonsignore
di Siena, primo Vicario dell'imperatore, proclamò ad alta voce che “l'imperatore
…approvava e ratificava i privilegi, le immunità, le franchigie, le donazioni, le
concessioni, gli usi, le consuetudini concessi dai suoi predecessori e ugualmente
donava e concedeva i diritti, la giurisdizione, il mero e misto impero, le terre, i
villaggi, gli uomini e i vassalli, le fedeltà e gli omaggi dei castelli, le fortezze che il
Comune e i cittadini possedevano in Asti e nel suo territorio”.
Nel corteo storico del Palio di Asti 2013 il rione San Paolo interpreta tale
avvenimento svoltosi nella cornice del prestigioso convento astigiano di San
Francesco. Sfilano la moglie dell'imperatore Margherita di Brabante - la quale
secondo il cronista astese del tempo Guglielmo Ventura “erat laudabilis, cattolica et
elemosinaria inter ceteras mulieres” (si distingueva tra le altre le donne per essere
ammirevole, religiosa, caritatevole) -; sua sorella Maria di Brabante, sposa di
Amedeo V di Savoia, e Isabella di Villehardouin, consorte di Filippo d’Acaja; fanno
ala intorno a loro le dame delle due famiglie astesi rivali, i Solaro e i De Castello,
riappacificate per opera dello stesso Enrico VII.
COMUNE DI NIZZA MONFERRATO
La peste – castigo di Dio
La diffusione di malattie infettive rappresentò una costante in tutto il medioevo. La situazione
sanitaria dei centri abitati e l’assenza di fognature certamente facilitavano lo sviluppo di grandi
epidemie, così come la vita famigliare in condizioni igieniche personali precarie, in spazi
abitativi circoscritti, con una notevole promiscuità tra persone ed animali. Topi e roditori in
genere erano diffusi nelle vie e nelle abitazioni.
Ma la “peste nera”, che imperversò in tutta Europa tra il 1347 e il 1353, fu un’autentica
pandemia e non risparmiò né Nizza della Paglia, né i borghi che la circondavano. Il male si
manifestava con barcollamenti, convulsioni, emorragie, tremori, lividi e bubboni ; i pochi medici
non conoscevano alcun rimedio, anzi preferivano essi stessi sfuggire ai rischi del contagio . La
medicina del tempo non andava oltre le fumigazioni con erbe aromatiche o l’eliminazione dal
corpo dell’humus negativo attraverso la pratica del salasso. Gli uomini, le donne, i bambini
morivano in pochi giorni e gli stessi famigliari abbandonavano gli ammalati per il terrore di
essere contagiati. Davanti a tanta impotenza e smarrimento prese corpo l’idea che la pestilenza
fosse un “castigo di Dio”, una punizione divina per la dilagante corruzione di costumi che
caratterizzava l’Europa del ‘300. Si formarono le prime compagnie dei flagellanti e si diffusero
pratiche devozionali che si manifestavano in preghiere continue, in processioni e nella
devozione assoluta a santi come San Rocco, ancora oggi presente nella nostra tradizione
contadina. Divenne consuetudine quasi ossessiva, per il ceto agiato, il testamento, che
consentiva di destinare alla Chiesa ingenti patrimoni. Si alimentò, in mancanza di conoscenze
scientifiche in merito alle cause reali di questa epidemia, la caccia al “diverso”: ne fecero
miseramente le spese streghe ed ebrei.
Come sempre dopo ogni momento di smarrimento, anche dopo la terribile “peste nera” tornò il
sereno sulla nostra Città e sulla nostra gente. Avviliti e decimati nella popolazione e nelle
risorse, i nicesi trovarono nel loro orgoglio e nel loro entusiasmo la voglia di costruire una
nuova vita, mentre la gioventù cresceva dopo la tragedia grazie alla tempra e alla tenacia di chi
era sopravvissuto ha saputo.
COMUNE DI SAN DAMIANO
Medioevo alla rovescia: la festa dei folli
si svolgeva nel corso dei dodici giorni che intercorrevano tra il Natale e l’Epifania: in quel
periodo, riservato all’esaltazione del mondo alla rovescia, gli ultimi nella scala sociale
prendevano provvisoriamente il posto delle autorità costituite.
Il rifiuto delle regole e la contestazione dell’ordine sociale culminavano in cortei sfrenati, danze,
banchetti, doni e festeggiamenti, viatico di salute, ricchezze e felicità per il nuovo anno; spesso i
gruppi festanti si snodavano per le vie o sui sagrati delle chiese o delle cattedrali, guidati dai
diaconi e da alcuni membri del basso clero.
Gli Statuti di Asti, a differenza di altre città italiane, non prevedono norme o divieti volti a
limitare gli eccessi dei festeggiamenti durante le adunate dei folli. Ma anche se mancano
attestazioni per il periodo medievale, feste sregolate, collegate da un lato alle falloforie del
mondo romano, dall’altro al Carnevale, di certo non mancarono nel nostro territorio.
La Chiesa tentò invano di estirpare queste pratiche, condannando l’uso delle maschere, ritenute
“diaboliche mistificatrici” del volto dell’uomo, creato secondo la Bibbia a immagine e somiglianza
di Dio.
Le uniche maschere permesse dalla censura ecclesiastica raffiguravano il diavolo (monito per i
peccatori) o le allegorie dei mesi, delle stagioni, delle arti e dello scorrere della vita.
Personificazione della follia era il giullare (joculator) musico, giocoliere, cantore, acrobata o
buffone. Egli svolgeva prevalentemente la sua attività nelle piazze o per le contrade, ma spesso si
esibiva in occasione di eventi e conviti al cospetto di nobili e borghesi, in cambio di denaro e
ospitalità; presso le corti si soleva celebrare la festa dei folli con banchetti e doni rituali,
scambiandosi una corona, una sfera o un anello d’oro, per propiziare l’anno incipiente.
Il corteo rosso blu rievoca questo colorato evento rappresentando i riti e i personaggi della festa.