Continua la nostra scoperta dei temi del corteo storico del Palio 2015:
RIONE SAN SECONDO
L'Osservazione del cielo … fra paure e curiosità
Nel medioevo gli astronomi e gli uomini di scienza, studiando i fenomeni celesti e il loro ciclico ripetersi, erano in grado di comprenderli e anche di prevederli; ma tra il popolo ogni alterazione rispetto dell’aspetto consueto del cielo e del corso degli astri, quale l’apparire di un nuovo corpo celeste o, al contrario, l’apparente scomparsa di un altro, provocava paure e suggestioni profonde. Così l’improvvisa scomparsa del sole causata da un’eclisse destava curiosità ed allarme. Per secoli queste manifestazioni celesti sono state considerate presagi di eventi terribili e funesti, ma secondo la testimonianza del cronista Astese Guglielmo Ventura, che nel suo Memoriale descrive l’eclissi di sole verificatasi nel 1261, tra gli Astigiani prevaleva la curiosità: “durante il mese di gennaio fu predetto da frate Lanfranco, esperto uomo di scienza dell’ordine dei Predicatori, che alla vigilia della successiva festa dell’Ascensione, verso l’ora nona, una parte del sole sarebbe diventata oscura in tutto il mondo. “ Proprio in quel giorno vidi sulla piazza dei Guttuari parecchi uomini e donne riuniti in attesa, che questo portento si manifestasse. Su uno specchio posto in un bacile di ottone pieno d’acqua apparve in un ombra circa metà del sole. Non molto tempo dopo vidi alcune volte la luna oscurarsi in parte, per metà e quasi del tutto…”. Il Rione San Secondo rappresenta lo stupore degli Astigiani in attesa del portentoso spettacolo offerto dalla volta celeste.
COMUNE DI BALDICHIERI
Curarsi nel medioevo tra antiche sapienze e concezioni filosofiche
La medicina ufficiale nel medioevo si rifaceva a concetti elaborati nell'antichità da Ippocrate e Galeno: il principio dei 4 elementi, aria, terra, acqua, fuoco, e delle 4 qualità, freddo, asciutto, umido, caldo. La combinazione di elementi e qualità creava gli umori: bile nera, bile gialla, flegma e sangue, dalla cui perfetta armonia dipendeva la salute dell'uomo. A questa concezione di tipo filosofico faceva riscontro un'attività di pratica chirurgica relegata nelle mani di figure minori, come barbieri e norcini: un atteggiamento che può essere spiegato con la natura stessa dell'atto operatorio che, praticato a quei tempi senza alcuna anestesia e in condizioni igieniche precarie, risultava particolarmente cruento e impuro, indegno di un medico. Questo pregiudizio era particolarmente forte nei confronti del parto: per secoli la levatrice non è stata un medico, ma la depositaria di un sapere trasmesso da donna a donna. La levatrice fornisce alla donna l'aiuto necessario nel momento del parto e anche se utilizza talvolta riti e pratiche magiche, spesso possiede un alto grado di specializzazione e soprattutto è in grado di alleviare con metodi naturali i dolori del parto. Tale azione per gli uomini di chiesa è contro la volontà di Dio, che aveva condannato Eva e tutte le sue discendenti a partorire con dolore. Da qui la denigrazione e anche la persecuzione e l'accusa di stregoneria che spesso colpiva queste donne. Esistevano, tuttavia, anche malattie nei confronti delle quali l'uomo medievale era totalmente privo di difesa: nella prima metà del XIV secolo, quando dall’Asia arrivò la Peste Nera, né il sapere filosofico dei grandi medici, né le competenze empiriche di taumaturghi furono in grado di dare delle risposte alla disperazione degli ammalati senza distinzioni di ceto sociale. Il corteo mette in scena la medicina ufficiale medievale, fondata sul principio dei quattro elementi: aria, terra, acqua, fuoco
COMUNE DI MONCALVO
Il putridarium e le suore non sepolte
L’atteggiamento medievale verso la morte era un insieme di rassegnazione passiva, fiducia mistica e timore per il destino dell’anima, che poteva subire una punizione senza fine o essere premiata con la vita eterna. La cristianizzazione di antiche usanze legate al culto dei morti iniziò nell’ambito della cultura monastica. Un rito funebre alquanto macabro era legato al putridarium: un ambiente funerario provvisorio, generalmente una cripta ipogea collocata sotto il pavimento delle chiese, in cui i cadaveri dei frati o delle monache erano posti entro nicchie lungo le pareti su appositi sedilicolatoio. Questo impressionante rituale si spiegava con il fatto che la carne era considerata elemento contaminante per la natura immateriale dell’anima; la salma doveva infatti presentarsi completamente scheletrizzata, asciutta, ripulita dalle parte molli. Solo quando la metamorfosi cadaverica si risolveva nella completa liberazione delle ossa, simbolo di purezza e durata, allora l’anima poteva dirsi definitivamente approdata nell’aldilà. La pratica della scolatura si diffuse largamente nel sud Italia e in diversi stati e città del nord come Milano e Novara. Nel marchesato monferrino dei Paleologi del XV secolo non mancavano chiese con i putridaria, come testimoniano i resti archeologici presso la chiesa della Santissima Annunziata di Valenza Po. Nella Civitas Montiscalvi esistevano ben tre monasteri maschili, alcuni probabilmente dotati di putridarium, e la vicina grangia della Masone, nel podere di Guazzolo, era sede di un convento appartenente alle monache di Rocca delle Donne di Camino. In quel luogo, la cui storia si spinge ben oltre la memoria dell’uomo, si ha notizia che le suore defunte non venissero seppellite, ma collocate su sedili di pietra dotati di un foro al di sotto del quale un vaso d’argilla serviva a raccogliere i liquami prodotti dalla decomposizione dei corpi. Secondo la tradizione, ogni giorno le religiose vive si recavano a far visita alle consorelle; la vista dei corpi consumati doveva servire loro per meditare sulla fragilità della carne e sulla pochezza della vita terrena. Una volta terminato il processo di putrefazione, le ossa venivano raccolte, lavate e trasferite nell’ossario. Il rito si concludeva con l’esposizione dei crani che erano venerati e omaggiati, al pari di reliquie, anche da alti prelati e dai nobili signori locali. I teschi erano considerati il simbolo delle cosiddette “anime antiche”, perché erano quanto rimaneva dei morti, quello che restava presente del passato.
BORGO SAN LAZZARO
Rex enim est iustum: il De Ludo Scachorum di Fra Jacopo da Cessole
Le prime fonti europee riguardanti il gioco degli scacchi risalgono agli inizi dell’XI secolo. Negli anni successivi il gioco conobbe una straordinaria diffusione fra i ceti più elevati, tanto che la destrezza in questo gioco era virtù distintiva (probitas) del vero cavaliere. L’opera più importante sul gioco medioevale fu il trattato del frate domenicano Jacopo da Cessole, piccolo paese vicino ad Asti. La sua opera fu scritta tra il 1295 e il 1300 ed è nota come Liber de moribus hominum et officiis nobilium super ludo scachorum; il manuale di scacchi, l’opera storica sull’antico gioco più diffusa nel mondo medioevale, venne quindi scritta da un astigiano. In esso gli scacchi sono usati come fonte di ammaestramenti morali: Iacopo da Cessole si serve della scacchiera, che rappresenta insieme città, regno e mondo intero, per allestire una rappresentazione allegorica della società medievale. Nell’opera trovano posto i pezzi nobili (il giusto Re, la casta Regina, gli alfieri o i vescovi saggi, i cavalieri fedeli e i vicari del Re solidi come rocchi), e i pezzi popolari. Il Liber ha un carattere morale, arricchito da ricordi di vita vissuta ed esempi pratici ricavati dal peregrinare del predicatore Jacopo. Diversi tra i personaggi citati hanno legami con Asti: tra questi Oberto d’Asti, mercante e cambiavalute forse appartenente alla famiglia dei De Gutueriis, i Guttuari; oppure Porteris, fratello del re dei Longobardi Edigoberto, che nel fuggire dal suo nemico Grimoaldo «capitò ad Asti». L’abbondanza di codici ancora conservati testimonia l’interesse che il Liber di fra Jacopo suscitò nelle corti italiane del tardo Medio Evo; del testo esistono circa 250 copie manoscritte redatte nel XIV, XV e XVI secolo. Imitando la guerra, gli scacchi ricordano a tutti che il Re (capo dell’esercito) è indispensabile per la sopravvivenza. Caduto il Re, il gioco (e quindi la vita) termina, qualunque sia la situazione degli altri pezzi. In una corte trecentesca gli scacchi erano, inoltre, uno dei rari momenti in cui damigelle e cavalieri potevano incontrarsi per una partita amichevole. E proprio da una miniatura che raffigura un tenero momento ludico tra dame e cavalieri prende spunto il corteo del Borgo San Lazzaro, che affianca, alla rappresentazione da tableau vivant di un momento di gioco, una sezione del corteo raffigurante allegorie e simboli delle varie figure che compongono la scacchiera.
RIONE CATTEDRALE
La Fortuna e le sue rappresentazioni allegoriche
Antonio Astesano, nel poema Carmen de varietate fortunae, sive de vita et gestis civium astensium, narra del crollo della Cattedrale di Santa Maria Assunta, avvenuto nel 1323: in chiesa, dal mattino al tardo pomeriggio, si erano susseguite numerose celebrazioni religiose, tuttavia, al momento del cedimento, fedeli e canonici avevano già lasciato l’edificio. Una vicenda esemplare di come la vita degli uomini sia dominata dal caso, dall’imprevedibilità, dalla mutevolezza del destino umano oppure dalla Fortuna, ritratta già dall’epoca romana come una fanciulla cieca che reca in una mano il globo terrestre e nell’altra la cornucopia, dalla quale lascia cadere ricchezze e abbondanza. Nel Medioevo, nelle immagini allegoriche, la cornucopia fu attribuita all’Abbondanza, mentre la Fortuna venne sempre più spesso ritratta con la ruota, come già scrisse il filosofo Boezio nel 523: «Giriamo la ruota rivoltandone l’orbita e godiamo di cambiar posto a ciò che sta più in basso con ciò che sta più in alto e viceversa». E a questo assunto si ispira l’opera dell’Astesano. Tra il XIII e il XV secolo, numerose furono le rappresentazioni della ruota della Fortuna, frequenti nelle miniature di manoscritti, sui rosoni delle vetrate delle cattedrali e, verso la metà del XV secolo, persino sui tarocchi. Tra le raffigurazioni più ricorrenti, la Fortuna, figura femminile incoronata, muove da dietro i raggi della ruota sulla quale sono posti quattro personaggi emblematici: in alto il re, in basso un uomo quasi nudo, a destra una persona che precipita e a sinistra un’altra che sta per ricevere la corona. Un’altra rappresentazione piuttosto nota vede invece la Fortuna come una dama coronata, con due volti – uno luminoso e uno buio – posta in piedi sulla ruota e armata di freccia. Ancora in ambito iconografico, un tema che trova ampia diffusione riguarda l’opposizione tra la Fortuna e la Sapienza o la Virtù. La Fortuna conosce ma non rivela ciò che riserva il futuro, ama gli audaci, i forti, i tenaci ma non la prudenza, la preoccupazione, la pigrizia, l’ingratitudine. Il Rione Cattedrale intende illustrare alcune rappresentazioni della Fortuna, elaborate tra il XIII e il XV secolo nelle immagini allegoriche.
COMUNE DI CANELLI
Asti, contea di santi e di beati: Enrico Scarampi
Degli Scarampi, originari di Asti, si hanno notizie fin dal XII secolo. Dedito al commercio e all’attività bancaria, il casato accresce nei secoli prestigio e potenza. In seguito al divieto di esercitare l’attività creditizia in Francia per il sospetto di usura, nel 1337 un ramo della famiglia acquista dai Marchesi di Saluzzo i feudi già di proprietà dei Signori Del Carretto, estesi per tutta la Valle Uzzone, le alte Langhe fino a Cairo e parte di Carcare, nonché quelli compresi nel territorio di Cortemilia, Roccaverano e Canelli, tutti facenti parte del territorio di Asti. Insieme alle terre gli Scarampi acquisiscono il titolo di Marchesi. In uno di quei castelli - secondo alcuni studiosi quello di Canelli - tra il 1354 ed il 1355 da Uddone Scarampi, figlio di Antonio, nasce Enrico. Presto si distingue per intelligenza, nobiltà di carattere e prudenza. Uomo di fiducia del Marchese Teodoro del Monferrato, nel 1383, a meno di 30 anni, viene consacrato vescovo di Acqui. Nonostante la Chiesa stia attraversando una fase assai critica (uno scisma, un Papa e due Antipapi, stati nazionali desiderosi di porre sotto controllo politico l’autorità ecclesiastica), il giovane Scarampi si distingue come vescovo e come consigliere sia del Papa romano, sia dell’Imperatore, esercitando ora l’arte diplomatica del marchese, ora l’abilità amministrativa del figlio di banchieri e manifestando la profonda cultura del vescovo e la bontà generosa del pastore. Papa Bonifacio IX nel 1401 lo nomina legato papale. Nel 1403 grazie alle sue doti diplomatiche favorisce la pace tra il Marchese del Monferrato e il Duca di Savoia, principe d’Acaia, propiziando le nozze tra Teodoro e la principessa Margherita di Savoia. Il Pontefice lo eleva a tesoriere e nel 1402 gli affida le diocesi di Feltre e Belluno, assecondando il volere del Duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, ribadito nel 1404 da Filippo Maria. Benvoluto anche da Papa Gregorio XII, dall’Imperatore Sigismondo e persino dall’Antipapa Giovanni XXIII, Enrico Scarampi svolge un ruolo determinante per la riunificazione della Chiesa con l’elezione di Papa Martino V. Muore a Belluno il 29 settembre 1440 e, secondo storici e biografi, viene “da subito considerato Santo dal popolo e oggetto di venerazione spontanea…”. Canelli, nel corteo del Palio 2015, celebra la famiglia Scarampi ed un “figlio delle sue terre” che ancor oggi, venerato come beato il 29 settembre dai fedeli, promuove la nobile storia delle terre astesi e della città spumantiera dove si dice ebbe i natali.
BORGO DON BOSCO
Jacopo da Varagine, Sant’Orsola e le undicimila vergini
Jacopo da Varagine, autore della celebre e monumentale Legenda Aurea, fu nominato priore del convento domenicano di Asti nel 1266. L’illustre cenobio, di cui rimangono pochi resti, sorgeva in prossimità della porta di San Lorenzo, attraverso la quale si raggiungevano le alture della Campànea dove in epoca moderna si sviluppò il Borgo Don Bosco. Presso il convento astigiano Jacopo scrisse certamente alcune parti della sua opera, intrapresa a partire dal 1260. Nelle centoottantadue vite di santi che la compongono, assieme all’intento edificatorio e moraleggiante prevale il gusto del meraviglioso e del sensazionale dell’autore, attento alle esigenze di lettori devoti, ma anche colti e interessati. Tra i racconti, uno dei quali è tra l’altro dedicato alla vita dell’astese San Secondo, spicca per grandiosità e teatralità quello di Sant’Orsola e delle undicimila vergini. Orsola, figlia del re di Bretagna, fu chiesta in sposa dal principe pagano Ereo. La fanciulla, che si era segretamente già consacrata a Dio, consigliata da un angelo chiese tre anni di tempo per raggiungere il futuro marito, nella speranza che nel frattempo costui potesse convertirsi alla vera fede. Accompagnata dalle fedeli amiche Aurelia, Cordola, Cunera, Pinnosa, Odialia e Cunegonda, e da un imponente corteo di undicimila vergini, intraprese un lungo ed avventuroso pellegrinaggio attraverso l’Europa, che la portò prima a Roma, poi a Colonia. Qui giunta, trovò la città conquistata da Attila re degli Unni. Il crudele sovrano fece uccidere in un solo giorno le undicimila giovani a colpi di freccia, ma invaghitosi di Orsola le promise salva la vita se avesse acconsentito a sposarlo. La principessa rifiutò e fu costretta a subire il martirio come le sue compagne. Il grandioso e portentoso racconto nacque in realtà da un banale errore di lettura. Orsola fu effettivamente una martire cristiana uccisa nei pressi di Colonia con alcune compagne: nel X secolo fu rinvenuta una lapide antica e consunta che le ricordava, ma dove l’indicazione del luogo del martirio, ad undecim milia dalla città, venne erroneamente interpretata con il numero delle vittime. La leggenda di Orsola e delle undicimila vergini ebbe una straordinaria diffusione nel Medioevo, ispirando numerose composizioni letterarie e opere d’arte. La Santa divenne protettrice degli educatori, dei mercanti di panni e dei bambini malati.