domenica 21 settembre 2014

LA STORIA IN MARCIA, ECCO I 21 TEMI STORICI DEL PALIO





Il lento incedere del corteo storico, accompagna l'attesa dei cavalli. Oggi Asti, orgogliosamente, corre il suo Palio.



BORGO TORRETTA

“E lo vielh comun venc/ e ditz per ufana/ che chascuna desrenc.” (-“ed il vecchio comune si schiera/, e dice per vanto/che ciascuna attacchi”).Il Carroccio delle dame di Rambaldo di Vaqueiras.


Nel 1201 il celebre trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras, ospite e amico del marchese Bonifacio di Monferrato e protagonista della vita brillante e fastosa della sua splendida corte, componeva la sua opera più originale e celebrata: il Carròs. È un poema epico-lirico, nel quale l’autore immagina che le più nobili dame di Piemonte, Lombardia e Toscana, gelose delle ineguagliabili doti di Beatrice figlia del marchese Bonifacio, unite in una lega le muovano guerra per costringerla a render loro “bellezza e cortesia, pregio e gioventù”. Fondano una nuova città turrita e fortificata, eleggono una di loro podestà, armano un forte esercito e affrontano infine la battaglia salendo su un potente carroccio, armate e protette da corazze. La bellissima Beatrice, amata da Rambaldo, non teme l’assalto: anzi, “senza usbergo, né cotta di maglia” affronta le nemiche e le sbaraglia, costringendole a rifugiarsi precipitosamente nella città da loro fondata, alla quale hanno imposto il nome ben poco augurante di Troia. Nella composizione piena di brio e di fantasia oltre alla finzione letteraria vivono anche, ben riconoscibili, le tensioni e le problematiche della società subalpina del tempo: in particolare le lotte senza quartiere che il marchese di Monferrato andava conducendo contro i liberi comuni piemontesi, primo fra tutti quello di Asti, il più potente tra i suoi nemici. Ed è proprio il mondo dei comuni e il loro modo - poco rispondente ai dettami cavallereschi ma efficace - di far guerra con le fanterie strette attorno al Carroccio, che Rambaldo ritrae da vero esperto e da profondo conoscitore. Rambaldo pone in ridicolo un mondo, che però pochi anni dopo, nel 1206, avrebbe trionfato proprio ad opera di Asti, che inflisse al marchese di Monferrato una definitiva e umiliante sconfitta. Il corteo della Torretta, per celebrare la vittoria del Palio conseguita lo scorso anno, rievoca la guerra fantastica tra la splendida Beatrice e “lo vielh comun” delle dame piemontesi con il loro “amoroso carroccio”: sconfitte queste nella finzione poetica, non sconfitto il Comune nella realtà e anzi destinato a nuovi futuri trionfi.

RIONE SAN SECONDO

La grandezza della vanità terrena: “la leggenda dei tre vivi e dei tre morti ”


Nel territorio astigiano, a Vezzolano, all’interno del chiostro dell'Abbazia, troviamo una famosa rappresentazione della leggenda "tre vivi e dei tre morti". Leggenda che si diffuse dalla Francia attraverso la Via Francigena e che era tema ricorrente degli affreschi dei luoghi di culto, poiché accumunava, nella sorpresa e nell'ammonimento, sia i popolani sia gli aristocratici
Il Rione San Secondo rappresenta, l'iconografia "dei “tre vivi e dei tre morti" attraverso scenografici quadri viventi: i “tre vivi” compaiono nelle vesti di tre giovani signori, dediti alla nobile arte della caccia con il falcone, allora diffusa presso l’alta nobiltà feudale. I tre giovani, durante la battuta di caccia, s'imbattono in “tre morti”, che dichiarano: "Io fui Papa"; "Io fui Cardinale"; "Io fui Notaio apostolico". Poco distante si scorge un eremita che mostra una pergamena in cui è riportato un ammonimento "Voi sarete come noi: potere, onore, ricchezza sono vani".
I cavalieri fuggono atterriti, ma poco dopo compare loro una croce e comprendono di aver ricevuto un segno divino che li esorta a rifuggire le vanità terrene e a rivolgere i loro pensieri a Dio.


RIONE CATTEDRALE

L’eterna lotta tra il bene e il male nei gruppi scultorei della Cattedrale di Asti


I Curiosa, i mirabilia e gli obscura medievali, che spesso si trovano in molti edifici religiosi, costituiscono una sorta di “topografia leggendaria” che si sviluppa in quello spazio immaginario dello strano, dell’altro, del rimosso, di tutto ciò che risulta difficile da classificare. È il caso, ad esempio, di due diversi gruppi scultorei presenti all’interno della Cattedrale di Santa Maria Assunta di Asti: nella navata centrale si trova una vasca lustrale, probabilmente del secolo XI, che poggia su un capitello corinzio capovolto. È decorata sui quattro spigoli da figure fantastiche e orrifiche, di cui due teste zoomorfe e due volti grotteschi, intervallate da rose a sei petali. A proposito di tali raffigurazioni va rilevato che l’idea di diversità, di rovesciamento, sta alla base della rappresentazione iconografica del Maligno: la sua corporeità presenta elementi esagerati e mostruosi in contrapposizione a simboli della purezza divina, come la rosa, riferimento alla Madonna.
Presso il pilastro opposto della navata centrale si trova una seconda vasca, datata 1229, posta anch’essa su un capitello corinzio capovolto: sulle pareti esterne della vasca si alternano chimere, simbolo dell’illusione, dell’impossibile, volti ambigui, espressione dell’alterità, rose a cinque petali e grifoni, creature leggendarie con il corpo di leone e la testa d'aquila. Questi ultimi, nel corso del Medio Evo, a seconda delle fonti di riferimento, furono interpretati in modo contraddittorio: secondo alcuni bestiari rappresentavano il demonio, secondo altri invece erano l’emblema di Cristo, come spiega Isidoro da Siviglia: «Cristo è leone perchè regna e ha la forza; aquila perchè dopo la resurrezione ascende al cielo».
Anche in questo caso è possibile interpretare le raffigurazioni come un emblema dell’allegoria che soggiace al binomio perdizione/redenzione, allegoria nella quale la presenza animale, non sempre decifrabile, ha le sue fonti sia in testi sacri come la Bibbia, sia in opere latine come Le Metamorfosi di Ovidio, che hanno dato origine al gusto dei mirabilia.
Il Rione Cattedrale intende rievocare l’eterna lotta tra il bene e il male prendendo spunto dai gruppi scultorei sopraccitati.


COMUNE DI NIZZA MONFERRATO

Calenda Maya


“…non fragor d’armi ne esce, né gridar di contese; la guerra che ogni primavera torna a insanguinare… non trova eco nei versi di coloro che per primi poetarono nella nostra lingua materna”: così canta Raimbaud de Vacqueiras, nato in Provenza attorno al 1165, figlio di un cavaliere spiantato e stravagante. Giovanissimo apprende l’arte dei trovatori e diventa joglar (giullare, menestrello) alla corte di Guglielmo di Baus, Principe d’Orange. Accanto all’arte del comporre e raccontare in musica, affina l’arte delle armi, nella quale si afferma al pari del canto. Ma a seguito delle violenze che sconvolgono la Provenza Raimbaud, come altri joglar, abbandona la sua terra e percorre le strade del Nord Italia fino a stabilirsi alla corte del Marchese Bonifacio del Monferrato (1192). Al suo fianco combatte contro la Città di Asti, nella campagna di Sicilia e nella Quarta Crociata. Durante il suo soggiorno alla corte del Monferrato si innamora di Beatrice, figlia naturale del Marchese, poi sposa di Enrico del Carretto: per la donna amata, che Raimbaud chiama “Bel Cavaller”, compone le sue canzoni. Joglar, Trobadour, Minnesänger erano maestri di festa e di gioia presso le corti medievali e Raimbaud de Vacqueiras lo fu in modo assoluto ed innovativo alla corte di Bonifacio di Monferrato. Le sue composizioni poetiche hanno resistito all’usura dei secoli e sono note ancora oggi. Fra tutte eccelle il Calenda Maya. Alla corte di Bonifacio la musica, il canto e la prosa allietavano il tempo libero e la festa: con la primavera si rinnovavano gioia, vitalità e amori dopo i rigori dell’inverno. I musici e le giovani; i cantori, le dame, i cavalieri intrecciavano i loro corpi in balli gioiosi fra i fiori dei giardini e le rose di maggio. La frutta più bella e la cacciagione. ….E l’amore che esplode tra i giovani a primavera. L’amor cortese è l’amor profano. Il trovatore canta per l’onore del Marchese e Signore delle terre che vanno dal mare fino a Casale, da Lanerio a Chivasso per tutta la pianura del Tanaro e del Po. E Nizza, non ancora città, ma terra di Lanerio, Belmonte e Quinciano si appresta a diventare monferrina.


BORGO SAN MARZANOTTO

Un copricapo adeguato alla condizione sociale di ciascuno


I copricapi, nati per proteggere dalle intemperie, hanno svolto nel tempo anche altre funzioni, contribuendo a creare l’immagine che chi lo portava voleva dare di sé, a segnalare uno status, a indicare l’appartenenza a una corporazione professionale. Moralisti e legislatori cercarono di regolamentare l’uso del copricapo, perché fosse adeguato alla condizione sociale di ciascuno e non esprimesse un tentativo di travalicare il proprio stato.
Il rango di appartenenza era determinato dalla forma e dai materiali del copricapo: alcuni erano inequivocabilmente simboli di potere, come la corona d’oro che identifica il re, il triregno papale, simbolo di sovranità regale, imperiale e spirituale, o le mitrie per i vescovi.
La berretta piccola e conica, rossa o più raramente nera, tra il Tre e Quattrocento connotava convenzionalmente umanisti, studiosi, artisti. A partire dal Quattrocento i comandanti militari, i cavalieri, quasi sempre i nobili e le personalità di rilievo sfoggiavano il berretto alla capitanesca o chaperon a pouf. I dottori, gli avvocati, i notai, i cambiavalute, i ricchi mercanti - come quelli astigiani - indossavano un tocco o tozzo, copricapo a calotta con la tesa alta in pelliccia o il mazzocchio. Il cappuccio, altro termine generico e comprensivo di molte varietà di copricapo, poteva essere indicativo della moralità di una persona, di un’ età già avanzata o di una florida situazione finanziaria. Il cappello a bec era il tipico cappello del viaggiatore medioevale, mercante o pellegrino. I cappelli a tesa larga, d’estate in paglia grezza o in feltro comune, d’inverno di pelo rappresentavano per il contadino e il povero l’ unica difesa dalla pioggia e dal sole.
Anche le donne appartenenti alle varie classi sociali non sfuggivano alle convenzioni sociali: dalle cuffie o ghirlande di fiori per giovani donne in età da marito ai veli monacali per donne anziane o vedove, ai ricchi, colorati ed elaborati copricapi delle classi più elevate. I copricapi conici o tronco conici ebbero ampia diffusione nel costume dei ceti medio - alti tra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento. Il sottile velo che copriva parte del viso e scendeva sulle spalle segnava anche il rango di colei che lo indossava: lungo fino alla vita e mai troppo leggero per una donna di ceto medio, lungo fino alla caviglia e di media trasparenza per la moglie di un cavaliere, mentre solo le donne di sangue reale potevano adottare lo strascico. I copricapi delle donne del popolo, adatti ai movimenti richiesti dalle più svariate incombenze, erano costituiti da cuffie semplici e funzionali o da ampi fazzoletti di lino che raccoglievano i capelli e assumevano varie forme a seconda delle mode.


COMUNE DI MONCALVO

L’invidia delle ali: macchine ed esperimenti di volo nel medioevo.


Sin dall’antichità l’uomo non si rassegna all’idea di vedere incollata a terra la propria ombra e prova ad alzarsi in volo come gli uccelli. Nell’immaginario popolare medievale suscitano grande interesse le creature alate descritte nei Bestiari e nelle fiabe popolari - come le Silfidi, evanescenti ed eteree fate dell'aria - o ancora nei miti di provenienza classica. Questo desiderio di volare è ben presente anche in Monferrato, come testimonia un mosaico conservato ad Acqui Terme, risalente alla fine dell’undicesimo secolo, che richiama la leggenda di Icaro e Dedalo. L'interesse scientifico per il volo si accende, tuttavia, nel XV secolo grazie alle nuove conoscenze relative ad alcuni aspetti dell’aerodinamica, del movimento dei venti e anche dell’anatomia dei volatili, indispensabili per lo studio delle dinamiche fisiche del volo. Già dal 1450 è documentato il moltiplicarsi di esperimenti con ogni tipo di congegno adatto a trasportare l’uomo nell’aria. C’è chi prova a volare con un grande mantello simile ad un'ala fatta con panni irrigiditi da una struttura di legno. Altri invece si affidano a veleggiatori, libratori ad ala battente o a modelli molto simili agli attuali alianti o paracadute. A volte, invece, ci si deve accontentare di far volare dispositivi senza l’uomo a bordo. Non mancano, nelle cronache del tempo, notizie di piccole macchine volanti che dilettano gli ospiti delle sempre più elaborate feste alle corti di re e ed imperatori. Nel Monferrato, che sotto i Paleologi vive la sua età d’oro ed accoglie sovrani come Sigismondo di Lussemburgo, non sarebbero mancati tali esperimenti: si narra, infatti, di grandiosi convivi durante i quali dame e cavalieri erano intrattenuti “…con buffi marchingegni, a forma d’uccello, che all’occorrenza potevano anche volare e trasportare piccoli pesi”. Si tratta di prototipi d’aquilone, un’evoluzione delle maniche a vento con testa a forma d’animale e corpo in tessuto che si riempie con le correnti. È in questo modo che nasce e cresce l’amore per il volo, che in seguito il genio di Leonardo da Vinci saprà affrontare con un approccio scientifico.


COMUNE DI SAN DAMIANO

I “Questi Lombardi cani”: gli usurai astesi e la dinastia Scarampi


Lo sviluppo economico del basso medioevo modificò il commercio del denaro, attività condannata dalla Chiesa e pertanto a lungo demandata agli Ebrei. Il prestito era però indispensabile per sostenere lo sviluppo economico e riprese vigore dapprima grazie all’attività dei Templari, che raccoglievano e gestivano denaro per conto del papa per finanziare le crociate e in seguito innovarono la pratica bancaria in Occidente. Accanto ai monaci guerrieri il prestito era praticato da altre categorie di operatori, tra questi i “lombardi”, prestatori originari dell’Italia centro-settentrionale. Gli Astigiani furono tra i più attivi rappresentati di questa categoria, che talora era oggetto dello stigma sociale, come ben illustra la novella del Decamerone nella quale sono definiti ‘Lombardi cani’.
Ogerio Alfieri nella sua cronaca scrive che gli Astigiani incominciarono ad esercitare su vasta scala il commercio del denaro nel 1226: si trattava di un’evoluzione rispetto all’attività di cambiatori che praticavano da tempo nelle grandi fiere e nei mercati europei.
Gli Astigiani acquistavano a Genova le merci provenienti dall’Oriente destinate alle fiere dell’Europa centro-settentrionale: la documentazione dei notai genovesi, infatti, a partire dal 1190 attesta la presenza dei mercanti astesi alle fiere di Champagne, ove vendevano pepe, spezie, allume, sete, argenterie e gioielli e acquistavano, per rivenderli al di qua delle Alpi, lane e panni di Douai, Tournay, Arras, stanforti d’Inghilterra, Fiandra e Artois.
Come si è ricordato, l’intenso movimento di denaro e la capacità di gestire le pratiche di cambio favorirono la trasformazione dei mercanti/cambiavalute in prestatori su pegno, dapprima individualmente, ma ben presto in forma associata nelle cosiddette casane.
Il commercio del denaro rese Asti una delle città più ricche del nord Italia: le famiglie più abbienti acquistarono feudi e castelli, fecero proprio uno stile di vita simile a quello della nobiltà, strinsero potenti amicizie; in città sorsero chiese, torri e palazzi sontuosamente arredati, il lusso venne ostentato. Come tramandano i cronisti, le donne del patriziato astese sfoggiavano lussuose vesti adorne di decorazioni in oro e argento, con pellicce e preziosi gioielli ornati di perle e pietre preziose.
Tra le famiglie nobili astesi, la dinastia degli Scarampi praticò il prestito su pegno in vari mercati europei, prestando denari a principi, re, nobili e alti prelati; furono però accusati di usura e vennero espulsi da molte città e regni, al punto che nelle Fiandre era da ritenersi una grave ingiuria definire qualcuno “Scarampi”, denominazione intesa come sinonimo di usuraio.
Il corteo rosso blu rievoca l’attività di uno degli esponenti della dinastia astese Daniele Scarampi, morto nel 1446 e sepolto nella chiesa della Maddalena di Asti. Ancor oggi la sua lastra tombale, custodita a San Damiano, è testimonianza dell’antico legame della nobile famiglia con questo territorio.


BORGO DON BOSCO

Il “Distirictus Civitatis”, allegoria di un dominio territoriale


A partire dal XIV secolo le grandi famiglie magnatizie astigiane iniziarono sistematicamente ad investire i ricchi proventi dell’attività bancaria secondo strategie di insignorimento territoriale, acquistando dal Comune la giurisdizione di numerosi villaggi e castelli ad esso appartenenti. Tali iniziative, benché formalmente non mettessero in discussione l’integrità della “patria astese” e i diritti della dominante, di fatto sottraevano alla “res publica” quote importanti di giurisdizione e alle casse comunali rilevanti introiti ed emolumenti ad essa collegati. Per ovviare almeno in parte ad un fenomeno che sembrava dolorosamente inarrestabile, Asti, nel corso del Trecento, elaborò e definì il concetto di “Districtus Civitatis”: una parte del territorio che, sulla base di rigide norme statutarie e legali, doveva rimanere sotto l’inalienabile e diretto dominio della Città.
Tale ripartizione assunse definitiva forma giuridica sotto la signoria di Gian Galeazzo Visconti: essa comprendeva i villaggi a corona della Città che ancora oggi costituiscono il suo territorio comunale, nonché una serie di comuni confinanti per un raggio di circa dieci chilometri. Tutte le terre del districtus dovevano essere governate da un podestà nominato annualmente da Asti e scelto in seno al Consiglio Generale della Città; la diretta dipendenza dalla “capitale” prevedeva inoltre una serie di oneri fiscali, tributari e legislativi. E' del 1385 la prima completa elencazione delle "ville" che costituivano il Distretto. Esse erano le attuali frazioni di Serravalle, Sessant, Mombonino, Variglie, Castiglione, Quarto, Montemarzo, San Marzanotto, Bellangero e i comuni di Cinaglio, Camerano, Antignano, Celle Enomondo, Tigliole, Baldichieri, Villafranca, Cantarana, Azzano, Mongardino, Vigliano, Isola d’Asti, Montegrosso d’Asti, Portacomaro, Scurzolengo e Castell’Alfero. Con poche variazioni territoriali, il dominio sul Distretto cittadino, una vera e propria "area metropolitana" ante litteram, fu a lungo gelosamente e caparbiamente difeso da Asti, che intravvedeva in esso l'irrinunciabile baluardo delle sue residue libertà comunali ed un importante presupposto di prosperità economica e di prestigio urbano. Del “Districtus Civitatis” ebbero ragione solo le politiche accentratrici ed assolutistiche dei Savoia, che a partire dal 1618 ne provocarono il progressivo smantellamento .


COMUNE DI BALDICHIERI

Festa al castello per l’insediamento del nuovo Podestà


Il territorio di Baldichieri, Monsbaldecherius, già citato nel diploma imperiale di Enrico III al Vescovo di Asti Pietro quale limite orientale dei possessi vescovili, nel 1159 fu concesso dall’imperatore Federico I Barbarossa al Comune di Asti: da questa data Baldichieri divenne parte del distretto cittadino (districtus civitatis) e seguì le sorti della città.
A partire dal 1312 ebbero inizio le dedizioni di Asti a dominanti esterne (Acaja, Savoia, Monferrato e Visconti), alle quali la città si rivolgeva nel vano tentativo di risolvere le lotte intestine: con l’ultima di queste dedizioni volontarie il 27 marzo del 1379, per “libera decisione” del Consiglio Generale, la città si sottomise alla signoria di Gian Galeazzo Visconti.
Asti perdeva definitivamente la propria autonomia, ma la sua classe dirigente non tralasciò di occuparsi della gestione politica e amministrativa del territorio da secoli sottoposto al suo controllo: lo dimostra la continuità nelle nomine dei funzionari preposti alle terre del districtus.
Il 14 gennaio 1386 il Consiglio comunale, secondo le modalità previste dagli Statuti, si riunì per eleggere tra i consiglieri comunali, i 180 ‘credendari’ (90 “de populo”, appartenenti alla fazione popolare, e 90 “de hospicio”, appartenenti alla fazione dei magnati) i podestà destinati ai villaggi del districtus. Come podestà di Baldichieri fu nominato Iacopo Rastello, nobile “de populo”, su proposta consigliere Cesare De Pavia, membro dello stesso schieramento.
Rastello fu benevolmente accolto dalla popolazione di Baldichieri, che lo ricevette con una grande festa al castello, situato nella parte alta del borgo.
Il Comune di Baldichieri intende rievocare l’elezione del podestà del 1386 e la festa organizzata per solennizzare il suo arrivo


COMUNE DI CANELLI

I signori di Canelli tra la corte di re Manfredi e gli ordini monastico-cavallereschi


Alla metà del XIII secolo numerosi esponenti delle nobili famiglie che costituivano il consortile di Canelli, dopo aver venduto le proprie giurisdizioni feudali al Comune di Asti, emigrarono in Sicilia alla corte di re Manfredi . Imparentati con il giovane sovrano per parte della madre di lui, Bianca Lancia di Agliano, essi si distinsero per fortunate carriere presso la corte sveva che li condussero ai vertici dell’organizzazione del regno. La conquista angioina della Sicilia (1266) significò per i nobili canellesi la perdita delle posizioni guadagnate: furono messi fuorilegge e perseguitati da parte dei nuovi dominatori. Alcuni riuscirono però a trovare rifugio e protezione presso Costanza, figlia di Manfredi, che dal 1262 aveva sposato Pietro III re d’Aragona. Quando gli aragonesi riuscirono a recuperare la Sicilia (1282), molti membri della famiglia Di Canelli, grazie al favore dei nuovi sovrani, iniziarono fortunate carriere negli ordini monastico-cavallereschi dei Templari e dei Gerosolimitani, raggiungendo, tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, posizioni di primo piano nell’uno e nell’altro ordine
Va ricordato fra’ Guglielmo Di Canelli che, Precettore dei Templari in Lombardia, era riuscito a sfuggire alle persecuzioni angioine. Nel 1290 la regina Costanza si interessò personalmente per fargli ottenere la Precettoria di Sicilia, trovando però opposizione da parte del Gran Maestro dei Templari Guillaume de Beaujeu. Caduto costui durante l’assedio di San Giovanni d’Acri, il suo successore, il celebre Jacques De Molay, diede nuovo impulso alla carriera di fra’ Guglielmo su richiesta di re Giacomo II d’Aragona. Nel 1294 lo stesso sovrano scriveva al Gran Maestro chiedendogli il permesso di trattenere alla sua corte fra’ Guglielmo Di Canelli “…qui nobis consanguinitatis linea est coniunctus” (che è unito a noi per linea di consanguineità). I rapporti di parentela con Bianca Lancia, che avevano fatto ottenere ai Di Canelli il favore di re Manfredi, continuavano a garantire loro la benevolenza dei nipoti, i re d’Aragona.


COMUNE DI MONTECHIARO

Gli abitanti di Montechiaro giurano fedeltà a Valentina Visconti


Nel 1387 Gian Galeazzo Visconti, dal 1379 Signore di Asti, concedeva la città ed il territorio da essa dipendente in dote alla figlia Valentina per il suo matrimonio con il Duca Ludovico di Touraine, fratello del Re di Francia Carlo VI.
Il perfezionamento di un atto politico di questa portata necessitava di una complessa procedura insieme giuridica e simbolica, che prevedeva, tra l’altro, il giuramento di fedeltà dei cittadini a Valentina.
Anche gli abitanti di Montechiaro, paese sul quale il Comune di Asti esercitava da secoli il proprio controllo e destinato a passare sotto la nuova dominante, dovettero dichiarare esplicitamente la loro fedeltà ai nuovi signori: il 26 maggio 1387 a Montechiaro nella chiesa di Santa Maria Maddalena i cives si presentarono davanti ai delegati ducali, Bertramo Guasco per Valentina e Catelano de Christianis per Ludovico, e giurarono fedeltà e omaggio a Valentina e al suo sposo Ludovico nelle mani del notaio Jean Sicard, toccando con la mano il Santo Vangelo.
Il documento che attesta questo episodio riporta tutti i nomi degli abitanti coinvolti nella cerimonia solenne: giurarono soltanto i cives a pieno titolo, ovvero i maschi di età superiore ai quattordici anni, mentre furono esclusi i religiosi e i nullatenenti. Furono parimenti escluse le donne, nobili, borghesi o popolane,
Nella ricostruzione dell’episodio il corteo biancoceleste vuole rappresentare il momento del giuramento facendo sfilare i protagonisti, ovvero il Notaro, i delegati Ducali e i cives, ma anche gli esclusi: i religiosi che recano i Sacri Testi, i nullatenenti che seguono il corteo rumoreggiando e chiedendo la carità, dame, damigelle, borghesi e popolane che accompagnano i propri congiunti ed infine i portacolori.


RIONE SAN PAOLO

La processione della domenica in occasione delle festività patronali nella Asti Medioevale


Nella Asti medioevale due ricorrenze, una volta all’anno, coinvolgevano ed entusiasmavano la popolazione, sia in città sia nel contado, rompendo la monotonia della vita di tutti i giorni: la festa patronale e la corsa del palio. La festa patronale affiancava alla componente religiosa anche significati politici, con aspetti di chiara valenza simbolica: tra questi il cero, un omaggio che già nel XII secolo il Comune imponeva a comunità e signori sottoposti al suo controllo, tenuti a partecipare alla cerimonia in onore del Patrono di Asti .
Anticamente la festa patronale veniva celebrata nel giorno anniversario del martirio di San Secondo, il 30 marzo; poiché, però, questa data sovente cadeva durante la Settimana Santa o in Quaresima, la festività venne spostata al giovedì che seguiva la prima domenica in Albis, cioè successiva alla Pasqua.
Le funzioni della domenica antecedente la festa patronale erano riservate al Capitolo della Collegiata di San Secondo. Al mattino si cantava Messa solenne con assistenza pontificale e con intervento ufficiale delle autorità. Alla sera veniva portato in processione il busto d’argento del Patrono, seguito dalle più eminenti personalità e dai giovani paggi prescelti per la corsa al Palio, che avrebbe coronato le celebrazioni patronali
Il Rione San Paolo rappresenta questa processione in onore del Patrono: accompagnano l’effige del Santo i componenti del clero cittadino, le autorità del Comune, nobili e nobildonne delle famiglie astigiane, i rappresentati di comunità e signori sottoposti al controllo di Asti che recano i ceri votivi, mercanti, banchieri, uomini di legge e una simbolica rappresentanza dei giovani paggi che correranno il Palio.


RIONE SAN SILVESTRO

Pregiudizi e torture ai tempi di Valentina Visconti


Valentina, nipote del Re di Francia Giovanni il Buono, bella e raffinata, già a quindici anni conosceva quattro lingue ed eccelleva in vari campi e materie, tra cui Medicina e Scienze naturali, apprese da docenti dell’Università di Pavia e dal maestro di corte, il celebre Francesco Petrarca. Nel 1387, grazie al matrimonio con il Duca Luigi di Valois, fratello del Re Carlo VI, divenne signora di Asti, territorio che portò in dote al marito: una delle donne, oltre che culturalmente, anche economicamente e politicamente più importanti del suo tempo. Facile comprendere come tale personaggio destasse grande stima, ma anche odio e invidie che, alimentate dalle superstizioni del tempo, provocarono alla Domina di Asti persino accuse di praticare “arti magiche e stregoneria”. Indubbiamente le erano note e care le simbologie araldiche ed alchemiche. Tra gli oggetti che portò con sé nel 1389, durante il viaggio nuziale che la condusse anche ad Asti, comparivano nel corredo: un fermaglio d’oro raffigurante un daino con il motto alchemico “Plus hault”; ricami di fiori di borragine ed erbe curative,di animali fantastici ed elementi legati alla magia bianca e due mazzi di “Sarrazines de Lombardie” (carte per la divinazione simili ai Tarocchi). Lo stesso biscione visconteo, stemma di famiglia, secondo alcuni era figura magica: intelligenza del serpente che divora l’uomo ambizioso o drago dai poteri miracolosi. Ma furono subdole ed abili strategie politiche a portare gli avversari di Valentina nel 1391 ad accusarla palesemente. Un frate agostiniano sostenne la sua partecipazione con il marito Luigi, sotto la guida dell’Abate dei Celestini Filippo di Mezières, a sedute di negromanzia, esorcismo e spiritismo. Nel 1393 l’Abate di Saint Denis accusò Luigi di aver organizzato un “Ballo dei Selvaggi”, in cui per cause accidentali arsero vivi alcuni nobili, per uccidere il Re e salire al trono al suo posto. Persino il processo nel 1407 contro Giovanni Senza Paura, assassino di suo marito Luigi, si trasformò per opera del francescano Jean Pétit, difensore del colpevole, in un attacco pretestuoso a Luigi e Valentina accusati di "…aver reso onori al Diavolo…”. Solo l’anno seguente,dopo essere stata scagionata dalle accuse di stregoneria, l’innocenza ed i diritti di Valentina furono finalmente riconosciuti.
Dame, dotti ed artigiani del Rione San Silvestro porteranno in corteo reperti e strumenti utilizzati durante le indagini inquisitorie, illustrando pene e metodi di tortura, dolorosi e dannosi, che spesso erano la terribile conseguenza dei pregiudizi e delle calunnie.


BORGO SAN LAZZARO

Arti liberali e scienze sacre: base della formazione scolastica medioevale e chiave del sapere divino


Nonostante le scarse notizie specifiche in merito, è il grande sviluppo economico di Asti nel medioevo a legittimare la deduzione di una vita culturale precoce e vivida almeno quanto quella economica. I tanti ordini religiosi presenti in città possedevano proprie biblioteche ed erano disposti anche a indebitarsi per arricchirle, come comprova il documento CCIII della raccolta delle Carte dell’Archivio Capitolare di Asti datato al 1205, nel quale un presbiter rector chiede ad un altro sacerdote 20 soldi astesi in prestito per comprare libros eiusdem ecclesie. Una schola vescovile era con ogni probabilità attiva presso i chiostri della cattedrale e certamente non mancarono in città le scuole attivate dagli Ordini Religiosi. Queste ipotesi trovano conferma nell’opera di un Astensis poeta intitolata Novus Avianus utilizzata nelle scuole di grammatica e nella figura di Alberto di S. Martino autore di un manuale di ars dictandi sulla retorica con particolare riferimento all’elaborazione epistolare. Grammatica e retorica insieme alla dialettica andavano a comporre il Trivio che insieme al Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) costituiva la base della formazione scolastica medioevale. Le arti liberali, contrapposte a quelle meccaniche, richiedevano attività intellettuale e applicazione di mente e spirito. Furono studiate e classificate già nella cultura alessandrina, ma nel medioevo resistettero alle censure ecclesiastiche come parti di un sapere nel quale la ragione era applicata alla fede, diventando uno tra i soggetti più raffigurati nelle arti pittoriche. Il Borgo San Lazzaro intende rappresentare le Arti Liberali e le Scienze Sacre ispirandosi all’affresco di Andrea Bonaiuti del Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze, nel quale le 7 arti Liberali sono raffigurate con le loro allegorie ed i pianeti protettori e le 7 scienze sacre (la Legge Civile, La Legge Canonica, la Filosofia, La Sacra Scrittura, La Teologia, la Contemplazione e la Predicazione). Aprono il corteo un omaggio all’affresco e San Tommaso d’Aquino accompagnato da due frati a simbolo del ruolo dell’ordine domenicano negli studi e nella loro diffusione.


RIONE SANTA CATERINA

La “Legenda aurea”: Santa Caterina giovane martire cristiana


La tradizione culturale medievale ci ha consegnato una monumentale opera agiografica, la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (1228 c.a./1298), frate domenicano che fu anche priore dell’ordine ad Asti nella seconda metà del XIII secolo.
Nella Legenda aurea vengono narrate le vite esemplari di cento ottantadue santi, modelli di vita cristiana: tra questi anche Santa Caterina di Alessandria d’Egitto, alla quale è dedicata la chiesa del rione.
La giovane martire ha avuto grande importanza nella tradizione cristiana - classica e medievale - , nella vita di numerosi ordini religiosi, nella storia degli studi filosofici e teologici, nelle tradizioni popolari e nell’iconografia religiosa, come dimostrano le numerosissime raffigurazioni della Santa nel corso dei secoli.
Secondo il racconto di Jacopo da Varazze, l’egiziana Caterina, figlia di re Costo, fu istruita fin dall'infanzia nelle arti liberali. Nel 305 Caterina si presentò a palazzo ad Alessandria durante i grandi festeggiamenti organizzati dall’imperatore romano Massenzio, nel corso dei quali si celebravano feste pagane con sacrifici di animali. Caterina rifiutò i sacrifici e chiese all'imperatore di riconoscere Gesù Cristo come redentore dell'umanità, argomentando la sua tesi con profondità filosofica.
L'imperatore, che, secondo la Legenda Aurea, sarebbe stato colpito sia dalla bellezza sia dalla cultura della giovane, convocò un gruppo di retori affinché la convincessero ad onorare gli dei. Tuttavia, grazie alla profondità della fede di Caterina, non riuscirono nell’intento, anzi essi stessi furono prontamente convertiti al Cristianesimo per merito della sua eloquenza .
L'imperatore ordinò la condanna a morte di tutti i retori e dopo l'ennesimo rifiuto di Caterina la condannò a morire anch'essa su una ruota dentata. Tuttavia lo strumento di tortura si ruppe e Massenzio fu obbligato a far decapitare la santa.
Il suo di Caterina venne poi trasportato dagli angeli fino al Sinai, la Montagna di Mosè dove si ergeva un famoso monastero in seguito dedicato alla martire.
Il corteo rosso-azzurro, rifacendosi alla versione della Legenda Aurea, ripercorre i momenti fondamentali della vita della Santa: la conversione, la disputa con i retori, il martirio della ruota e infine la morte per decapitazione.


BORGO VIATOSTO

Tra cielo e terra: simbologia e mistica degli alberi nel Medioevo


Alberi e piante hanno da sempre affascinato l’uomo. Nel Medioevo la simbologia collegata al culto degli alberi assunse significati religiosi cristiani, che si sovrapposero a miti e leggende antiche di matrice celtica. Il Borgo Viatosto rende omaggio al patrimonio naturale che ancora oggi ne costituisce la preziosa cornice, rappresentando in un’allegoria alcuni alberi e arbusti che si caratterizzavano per il loro particolare significato: la rosa, emblema di purezza e intimamente collegata al culto mariano; il noce, albero collegato a culti stregoneschi che sfruttavano le supposte proprietà divinatorie dei suoi frutti; l’olmo, sotto le cui fronde in Francia veniva amministrata la giustizia; il tasso o “albero della guerra” e della caccia, dal legno flessibile, particolarmente adatto per la fabbricazione degli archi.
Non possono mancare i tre elementi simbolici presenti all’interno della chiesa romanica di Viatosto: il grano, le cui spighe costituiscono una premessa di benessere e nutrimento per le generazioni; la quercia, albero della legna, i cui frutti costituiscono un prezioso nutrimento per molte specie animali, presente sulla volta in una sorta di immensa ghirlanda; l’albero delle ciliegie: queste ultime sono rappresentate nella pala d’altare sulla navata sinistra dedicata alla Madonna, e costituiscono il simbolo della passione di Cristo, rinsaldando il legame tra natura e religiosità che costituisce l’elemento caratterizzante della storia del Borgo.

COMUNE DI CASTELL’ALFERO

“Ad marchum vel libram astensis”. Pesi e misure a Castell’Alfero nel medioevo


Il Comune di Asti imponeva a tutte le terre e villaggi costituenti la "Patria Astensis" di uniformarsi alle misure di peso, lunghezza e capacità in uso nella “capitale”. A tal fine, e sotto pena di pesanti sanzioni, ogni comune e villaggio del territorio astigiano era tenuto a dotarsi di appositi campioni, ai quali dovevano scrupolosamente attenersi i rivenditori, gli esercenti, i dettaglianti e in generale tutti coloro che vendevano merci o derrate a misura e a peso. Ogni anno i consoli o rettori di ciascun villaggio (e Castell'Alfero tra questi) dovevano portare in Asti i campioni dei pesi e delle misure per farli verificare, approvare e timbrare presso il palazzo del podestà alla presenza degli Ufficiali del Giudice delle Reve; nell'occasione, gli stessi consoli giuravano di controllare scrupolosamente affinché tutte le merci fossero vendute "ad marchum vel libram astensis". Gli Statuta Revarum, in una “reformagione” del 1475, specificano dettagliatamente quali dovevano essere i campioni delle misure da far verificare in Asti: per le misure di capacità lo staro (circa 50 litri), l'emina (circa 23 litri), il quartirone (12 litri), lo scopello (3 litri), la pinta (1,4 litri), il quartino (0,35 litri), il terzo (0,25 litri) e il mezzo quartino (0,17 litri) per i liquidi e gli aridi. L'alna, pari a circa 120 centimetri, ed il raso pari a 70 centimetri per le misure di lunghezza. La libbra (360 grammi), la mezza libbra (180 grammi), il quartirone (90 grammi), l'oncia ( 30 grammi) e la mezza oncia per il peso. Inoltre si dovevano sottoporre a verifica anche un prototipo di stadera grande e uno di bilancia.



BORGO SAN PIETRO

In cammino verso Gerusalemme tra fede e meraviglia


La ricerca storiografica più recente ha modificato l’immagine tradizionale dell’uomo medievale chiuso entro le mura della città o del monastero, dimostrando invece come fossero frequenti, nonostante le difficoltà, i viaggi di mercanti, monaci, cavalieri e pellegrini che per motivi politici, economici, religiosi e militarisi ponevano in cammino.
Posta al centro del sistema viario della pianura padana, da sempre snodo importante della via Francigena, Asti vide confermato il suo ruolo centrale rispetto agli itinerari diretti verso i luoghi sacri con la bolla del 1113, con la quale papa Pasquale II riconobbe ufficialmente l’Ordine dei Cavalieri dell’ Ospedale di Gerusalemme: in essa Asti è citata, unica città dell’entroterra, insieme a sei porti marittimi d’imbarco per l’Oriente. Fu proprio lungo l’asse dell’antica via Fulvia che ad Asti si insediarono i Gerosolimitani e sorse così San Pietro in Consavia, che anche nella forma architettonica richiama la rotonda del Santo Sepolcro con precisi riferimenti a Gerusalemme.
Molti furono gli astigiani che, entrati nell’ordine Gerosolimitano, partirono desiderosi di conoscere mondi nuovi, spinti dal forte richiamo della difesa dei luoghi santi e guidati anche da uno spirito errabondo ed avventuroso.
Il viaggio, quasi sempre lungo e difficile, diventò una prova di vita superabile con la fede, paradigma del passaggio dal mondo del peccato alla salvezza attraverso la penitenza e il riscatto.
Meta reale e spirituale del cammino era Gerusalemme, posta in molte carte geografiche al centro dell’ Universo tra il Paradiso e l’Inferno.
A testimonianza di questi viaggi, i racconti di cavalieri e pellegrini che si avventuravano verso l’ ignoto narravano spesso di forme di vita meravigliose e mostruose al confine fra l’umano e il sovraumano: l’ uomo-bestia, il serpente crestato, il basilisco, le fanciulle-fiore, le sirene, che compaiono anche nelle decorazioni di San Pietro in Consavia, a simboleggiare le paure, le illusioni e le speranze di coloro che viaggiavano.



 RIONE SAN MARTINO SAN ROCCO

Le lusinghe dei sette vizi capitali


La cultura del medioevo è attraversata dal tema del peccato: gli uomini e le donne sono continuamente minacciati dalle insidie del diavolo tentatore che instilla nel loro animo le stesse lusinghe e gli stessi dubbi con cui ha sedotto i progenitori Adamo ed Eva.
Inizialmente i vizi erano otto, poiché comprendevano anche la vanagloria, che successivamente venne assorbita nel peccato di superbia: si passò così al settenario dei vizi capitali, del quale Enrico di Susa propose una nuova successione, dal più grave al meno grave, facilmente memorizzabile con l'acronimo delle loro iniziali, SALIGIA (Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira e Accidia).
Il ruolo di capostipite di tutti i vizi conferito alla superbia ribadisce l'analogia tra il peccato di Adamo e le colpe che gli uomini commettono quotidianamente.
I sette vizi venivano spesso raffigurati sulle mura di pievi, chiese e cappelle per poter esser visti da tutti e fungere da monito e da invito alla penitenza: le pitture erano infatti immediatamente comprensibili per il cuore e la coscienza dei semplici, che ignoravano la scrittura.
Tipico dell'arco alpino occidentale e in particolare del Piemonte e della Liguria è il tema della cavalcata dei vizi in cui sette personaggi, che li simboleggiano, cavalcano altrettanti animali, simbolo degli stessi vizi, trascinati da una lunga catena tirata da figure diaboliche verso le fauci spalancate di un drago, che rappresenta la bocca dell'inferno.
Gli Astigiani non erano certo indenni dalle lusinghe dei vizi: essendo impegnati nel mercato del prestito sovente rischiavano di incorrere nel peccato di usura, primogenito dell'avarizia, tanto che la preoccupazione e talvolta il pentimento li portavano a risolvere, in punto di morte, i loro scrupoli morali con donazioni in restituzione del "maltolto".
L'ostentazione da parte delle nobili famiglie delle proprie ricchezze era sicuramente segno di superbia, così come le irose lotte intestine tra casate, che portavano addirittura all'abbassamento delle torri della parte soccombente, erano dettate dall'invidia e dalla sete di potere, mentre la lussuria e la gola certamente animavano le notti della città.



BORGO SANTA MARIA NUOVA

San Biagio e la festa della Candelora


Nel Borgo di santa Maria Nuova fin dal medioevo si diffuse il culto di San Biagio; nel XV secolo il santo divenne compatrono della chiesa insieme alla beata Vergine ed alcuni resti dello stesso sono conservati nell'altare maggiore. Durante la funzione religiosa per la festa, oltre alle candele, venivano benedetti dei pani consumati dopo la processione, gli avanzi venivano conservati ed utilizzati come curativi delle affezioni della gola ed i ceri venivano conservati nelle abitazioni dei fedeli per essere riutilizzati in caso di necessità. In epoca medievale nel borgo di Santa Maria Nuova era particolarmente venerato San Biagio, le cui reliquie erano conservate nell'altare maggiore della chiesa. Nel XV secolo, quando fu costruito il nuovo edificio sacro, San Biagio ne divenne compatrono insieme alla beata Vergine della Purificazione. I Canonici Lateranensi, cui la chiesa fu affidata a partire dal 1472, commissionarono a Gandolfino da Roreto due affreschi ai lati del portale d'ingresso, raffiguranti il protettore della Congregazione, Sant'Agostino e San Biagio. Quest'ultimo era un medico armeno vissuto tra il III e IV secolo a Sebaste in Asia Minore, perseguitato e decapitato dai romani perché rifiutò di rinnegare il Cristianesimo. Nella sua qualità di medico, viene invocato dai fedeli in particolare per la guarigione dalle malattie della gola. È anche protettore dei cardatori di lana, degli animali e delle attività agricole.
La festa di San Biagio ricorre il 3 febbraio e segue quindi quella della Purificazione della Vergine, cui la chiesa è dedicata, detta anche ”Candelora” per la tradizionale benedizione delle candele tipica di tale Festività. Sono ricorrenze che rimandano ad antiche tradizioni pagane collegate alla fine dell'inverno: secondo i celti, le grandi piogge di febbraio erano segni di purificazione della terra e questa data segnava il passaggio tra l’inverno e la primavera, tra il buio e il freddo e il risveglio della luce. Le manifestazioni cristiane si sono sovrapposte ai riti pagani e le feste della Purificazione della Vergine e di San Biagio coincidono con l’offerta di candele benedette della "Candelora". Durante la celebrazione in onore del Santo, oltre alle candele, venivano benedetti dei pani dolci o salati, che venivano consumati dopo la funzione. Il pane che avanzava veniva conservato ed utilizzato come cura delle affezioni della gola. I ceri usati nella processione erano conservati nelle abitazioni dei fedeli per garantirsi l’intercessione di San Biagio durante calamità meteorologiche, nell'assistenza di un famigliare gravemente ammalato o nel caso di epidemie.
Il corteo storico, preceduto da vessillifero, sbandieratori e musici, è aperto dal priore di Santa Maria Nuova che reca le caratteristiche candele incrociate per la benedizione della gola. Lo accompagnano due religiosi: uno mostra le reliquie del Santo, mentre l'altro porta il pane benedetto. Segue il "paliotto" di San Biagio protettore della corporazione dei lanaioli, accompagnato da esponenti della famiglia dei Lupi - drappieri che esercitavano la loro attività commerciale presso il borgo di Santa Maria Nuova - i quali portano le candele tipiche della "Candelora".


BORGO TANARO 

La vita sul fiume: dagli affari alle punizioni. La nascita della Società del Moleggio


Travagliata da continue guerre e lotte civili, l’economia astigiana nella seconda metà del XIV secolo era pesantemente compromessa. Luigi d’Orleans, signore di Asti dal 1387, decise di stimolare la ripresa economica con un’iniziativa imprenditoriale di grande rilievo. “…Si aqua fluminis Trevezie in civitatem nostram prolictam duceretur…..propter molendine, batanderia, parateria ut recas et alia artificia ibidem costruenda et edificanda…”: così si legge nelle Lettere Patenti del 23 ottobre 1397, documento mediante il quale il Signore d’Orleans sancì la nascita della Società del Moleggio, cui assegnava il monopolio sulla macinazione cerealicola nell’astigiano. La somma di 10.560 genoini, pari a 46.464 lire astesi dell’epoca, venne investita metà da sedici famiglie nobili astigiane e metà dallo stesso Luigi d’Orleans per la realizzazione delle bealere e la costruzione di nove mulini, di cui quattro molini natanti sul fiume Tanaro. Tra le famiglie nobili astigiane associate all’iniziativa comparivano i Curia, i Solaro, i Laiolo, gli Asinari, i Riccio ed altri ancora. Questa impresa doveva ripristinare l’attività molitoria, allora in crisi, ma al contempo creare nuovi mulini, battitoi, paratoi e segherie per ridare prosperità e benessere alla città e incrementare il commercio sul fiume.
Grazie a questo investimento il Tanaro assumeva una centralità nuova nella vita economica e commerciale della città. Gli approdi fluviali tornarono ad essere luoghi di commercio, ove cercare stoffe, spezie e prodotti alimentari, vi trovarono spazio il mercato del pesce, l’attività delle lavandaie e i frutti della fatica dei contadini.
Ma il fiume poteva essere anche teatro dell’amministrazione della giustizia: negli ordinati comunali di fine XIV secolo si legge che la pena per i bestemmiatori consisteva nell’essere calati con una corda dal ponte del Tanaro nelle acque del fiume sino a che non ne venivano completamente sommersi.